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La nostra esperienza del mondo comprende molti eventi che hanno un proprio suono, ad esempio il mandare in pezzi un vaso o l’accartocciare una bottiglia di plastica, ma che tradizionalmente con la musica hanno avuto a lungo poco a che fare. Oggi ce li siamo ripresi quasi tutti, li abbiamo colonizzati.

Ci sono poi aspetti della vita intorno a noi che non hanno proprio niente a che fare con il suono: un politico annuncia nuove leggi o vecchie guerre, il nostro vicino si indigna disperato, la crisi economica rovina la nostra cena. Tra un discorso politicamente orientato, un vicino disorientato e la trasmissione dei dati sulla crisi economica, sembra non esserci nessuna correlazione, nessun ponte interno, né tanto meno esterno con un parallelo universo musicale.

Eppure a farci caso, come i vasi che si rompono o le bottiglie che si accartocciano, anche gli annunci, le crisi hanno ognuno un proprio ritmo – uno sviluppo nel tempo che genera tensioni, risoluzioni, aspettative –  e anche inflessioni e perfino una sorta di propria armonia (o disarmonia) interna che sentiamo spesso prima con la pancia e solo dopo con la testa.

In altre parole, molte espressioni della realtà che ci circonda, pur non avendo evidenti legami con la musica, nascondono dimensioni di fatto musicali. Abbiamo cominciato a prenderci anche queste.

Colonizzare anche questi territori non è certo difficile: la tecnologia che ci può dare una mano costa sempre meno. Una sinfonia sui temi di Wall Street? Un rap minimalista su Berlusconi o su una famosa annunciatrice americana? Ogni combinazione è possibile e forse utile al supremo e totalitario volere del Compositore.

Ma cosa succede se il Compositore prova a ritrarre gli artigli del colonizzatore e cerca, più da artigiano che da artista, di riportare in partitura queste dimensioni inizialmente lontane dalla musica con acribia, con una ideale ed ecologica voglia di trasparenza? Cosa può accadere se non piega l’oggetto del suo desiderio, ma si rende disponibile ad essere piegato da questo?

Se qualcosa delle energie e delle emozioni che hanno determinato e caratterizzato l’evento reale riesce a sopravvivere ad una simile traduzione sonora, allora forse potremo ascoltare suoni che non interpretano o sostituiscono la realtà, ma in qualche misura la amplificano. Certo, una simile realtà ‘amplificata’, da sola, spesso non arriverà a far musica: è lontana da una buona parte dei mondi sonori che ci circondano, eppure, a tratti e a ben vedere, sembra essere stranamente familiare come se retta da logiche altre, difficili da ridurre, ma non aliene.

Molte le domande.

Se la musica, da specchio o da alternativa al reale, si riduce ad essere lente (acustica) vale la pena continuare a chiamarla musica?

In tutto questo il compositore, l’accanito creatore di mondi orgogliosamente solo suoi, che fine fa? La sua rimane arte, e pure sempre arte del Soggetto anche se questo, pure sembra volersi ritrarre dalle proprie responsabilità e dai propri diritti? E’ credibile nel suo voler diventare solo (o anzitutto) un buon traduttore che sogna di poter aggiungere qualche altro colore alla nostra visione del mondo, un colore che una volta scoperto ci troviamo ad ammettere che è stato sempre lì?

Oltrepassato finalmente il vecchio millennio, serve più l’inventore, l’artista o l’artigiano interessato in modo compassionevole a dare un’identità sonora ai frammenti muti del nostro reale?

Fabio Cifariello Ciardi, dicembre 2014

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