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Luigi Ceccarelli

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Intervista di Susanna Persichilli

Feb , 11
Intervista di Susanna Persichilli

Intervista di Susanna Persichilli a Luigi Ceccarelli
pubblicato sul n. 39 (Gennaio/febbraio 2001) della rivista “I Fiati”

Come si è avvicinato all’elettronica?

I miei studi musicali sono stati molto particolari. Mi sono diplomato, a diciannove anni, in elettronica industriale; fino a quell’età avevo fatto il batterista in un gruppo rock e non avevo le idee molto chiare su cosa avrei fatto da grande, ma mi piaceva molto fare il musicista. Con queste due professionalità mi sono iscritto in Conservatorio nella classe di musica elettronica, senza sapere nulla della musica scritta. Nel 1973 la musica elettronica era appena entrata in Conservatorio e c’era bisogno di nuovi allievi interessati alla materia, per questo non ho avuto difficoltà ad essere ammesso; oggi questo sarebbe impossibile perché la M.E. è diventata un corso superiore e serve un altro diploma di conservatorio per iscriversi. Così ho dovuto studiare contemporaneamente solfeggio e composizione; pur non conoscendo la scrittura musicale avevo evidentemente la “maturità” giusta per fare il compositore. Dopo tre anni avevo raggiunto il livello degli altri studenti, ma con una preparazione tecnica riguardo all’elettroacustica molto superiore a qualsiasi altro musicista che proveniva dal Conservatorio.

Nella sua musica, però, sono spesso presenti richiami al passato, al gregoriano, per esempio. Perché questo ritorno all’antico da parte di un compositore che si comincia a interessare all’elettronica da rockettaro?

Perché tutto quello che facciamo oggi è comunque legato al passato. Io penso che la musica, come tutte le arti, deve essere una sintesi tra presente, passato e futuro.

Perché il gregoriano e non la tradizione sette-ottocentesca?

La prima ragione è che un artista con pretese creative deve andare necessariamente contro il passato recente. Succede sempre, in ogni momento della storia: i giovani vanno contro i genitori, ma tendono a rivalutare i nonni. In estetica, ma anche nella vita di tutti i giorni, questo succede perché per affermare un’idea nuova e diversa bisogna andare contro quella dominante; e allora volendo recuperare la storia si attinge al passato remoto.
La seconda ragione è che per me è assolutamente necessario un recupero della dimensione sonora non influenzata dall’armonia. Credo sia questa la ragione principale che mi obbliga a staccarmi dalla musica tradizionale.
Quando ho composto La guerra dei dischi, per esempio, un pezzo ispirato ai suoni ed al mondo della musica rock, tratto da un romanzo di Stefano Benni, ho scoperto che quello che non potevo usare, del rock, erano le cadenze armoniche (quarto-quinto-primo, primo-quinto-primo), perché mi riportavano subito a quello che rappresenta la banalità del rock. Inizialmente si è trattato di una scelta inconscia, ma a metà lavoro mi sono accorto che evitando l’armonia tutto il pezzo funzionava bene.

Non ha mai pensato di occuparsi di musica strumentale?

Naturalmente quando ero studente ho scritto vari pezzi per strumenti senza elettronica tra cui un quartetto per archi e uno per sedici strumenti. Poi per varie ragioni, sia estetiche che contingenti, ho deciso di non lavorare più con la musica strumentale senza elettronica. A me piace lavorare molto sul suono, e la musica strumentale non mi permette questo; l’ambiente dove vengono eseguiti i concerti, per esempio, è quasi sempre una negazione della dimensione sonora.
Lavorando con l’elettronica, invece, ho la possibilità di tenere in maggior considerazione la qualità del suono e l’acustica dell’ambiente durante un concerto, e nei casi migliori anche di modificarlo; è un’operazione molto complicata che obbliga a un maggior lavoro, ma in genere ne vale la pena. Molto spesso penso che sarebbe più facile fare musica strumentale, ma non si ha mai la garanzia di un risultato globale di qualità. Ci sono troppe variabili che non si controllano. E poi la mia poetica parte in primo luogo dal suono.

Mi sembra che l’attenzione allo spazio sia cambiata negli ultimi anni…

Si, è vero, grazie anche alla tecnologia elettroacustica i musicisti stanno sviluppando molto interesse verso lo spazio e l’ambiente sonoro, e questo anche in senso propriamente ecologico. Ma questo si vede soprattutto fuori dall’Italia, dove si fa più musica elettroacustica e dove la ricerca anche in campo artistico viene molto stimolata e finanziata. In Italia da questo punto di vista siamo rimasi molto indietro sia per quel che riguarda le istituzioni che l’ambiente dei musicisti in generale (a volte il peso della tradizione può essere un grande freno per le nuove generazioni).
Molto spesso i compositori di musica contemporanea, quelli più accademici (si, c’è una accademia anche per la musica d’avanguardia, ed è una delle più insopportabili), scrivono le note sulla carta senza alcuna cognizione del risultato acustico, trasformando la musica in una esclusiva creazione di segni che non ha alcun rapporto con i suoni. L’elettronica porta facilmente superare questa mentalità. Io uso il computer perché mi permette di lavorare direttamente sui suoni e non su segni che rappresentano suoni e anche molto approssimativamente. In Conservatorio ancora oggi ai futuri compositori non viene insegnata l’arte dei suoni ma dell’arte dei segni.
Una causa molto negativa di questo è l’uso pressoché esclusivo e indiscriminato del pianoforte nelle classi di composizione. Il pianoforte è una macchina stupenda costruita per la musica dell’Ottocento e del primo Novecento, concepita per sviluppare i rapporti armonici e melodici; ma per quel che riguarda la qualità del suono, un pianoforte al giorno d’oggi non ci serve assolutamente a niente, soprattutto poi se è un verticale.
Credo che il pianoforte sia lo strumento che ha più ostacolato lo sviluppo della musica negli ultimi cinquant’anni, e continua ancora oggi a farlo… Naturalmente non ho nulla contro lo strumento in se che invece mi sembra bellissimo, ma è l’uso che la maggior parte dei musicisti contemporanei ne fanno.

Lei non ha composto nulla per pianoforte?

Negli anni 80, ispirato dalla musica di Cage ho scritto due pezzi per pianoforte preparato, lavorando sulle possibili trasformazioni del timbro.
E poi, a dimostrazione che il mio rapporto con questo strumento è anche di grande amore, sto realizzando le musiche ed il sound design per un’opera multimediale concepita insieme ai fotografi Roberto Masotti e Silvia Lelli, e con i testi di Mara Cantoni. Si chiama “Bianco Nero Piano Forte”. Si tratta di un’opera pensata sia come installazione che come CDRom, partendo da immagini del pianoforte rigorosamente senza pianista; da queste prendono spunto brevi storie, dialoghi, versi poetici o commenti dove la dimensione fantastica si intreccia a riferimenti musicali e letterari. L’ambientazione sonora trasforma il pianoforte in uno strumento multidimensionale, rivelando la sua voce più inedita e interiore e trasforma le parole scritte in infinite sonorità in dialogo con lo strumento.
Per ora abbiamo realizzato un CD Rom di presentazione dell’opera che presto realizzeremo in forma di installazione.
Nel 1990 ho composto anche un pezzo per flauto e pianoforte, “Aura in Visibile”, dove il pianoforte non è mai suonato sulla tastiera, anzi, dove il pianista non tocca quasi mai lo strumento ed il suono del flauto, per mezzo di un sistema elettromeccanico inventato da me, mette in vibrazione l’intera cordiera.

Mi sembra che un compositore che si occupa di musica elettronica sia presente in maniera più attiva sulla scena dell’esecuzione…

Certo. Con l’elettronica si possono controllare molti più parametri della musica, che normalmente il compositore deve lasciare alla prassi strumentale. E’ una entusiasmante possibilità ma anche un grande limite, perché ci vuole più tempo per comporre un pezzo. I miei lavori strumentali sono composti prima al computer e poi trascritti in partitura tradizionale. Sono quindi costretto a fare un lavoro doppio: prima la realizzazione del pezzo con i suoni e poi la traduzione per l’esecutore. Se vogliamo fare un paragone con il passato è un po’ come la musica che del cinque-seicento, prima eseguita sullo strumento e poi trascritta.

Quando non c’era questo rigore del foglio scritto…

Nel tempo io sono andato sempre più lontano dal foglio scritto e compongo direttamente al computer.

E’ un altro legame con il passato remoto di cui parlavamo prima.

Sì, certamente. La scrittura tradizionale della musica ci ha permesso di realizzare grandi capolavori; dalla fine del ‘900, però, è divenuta assolutamente inadeguata ad esprimere le idee e le concezioni di un musicista di oggi.

Come nasce un suono?

Una premessa: fino agli anni Ottanta la musica elettronica aveva la pretesa di creare dei suoni dal niente, cioè direttamente dalle macchine; le variabili del suono sono però così tante che per ottenere musica interessante dal punto di vista estetico occorre specificare al computer una enorme quantità di dati, e questo diventa un lavoro troppo lungo, possibile per un ricercatore ma non per un musicista.
I suoni delle mie opere partono sempre suoni concreti, perché li ritengo più interessanti dal punto di vista estetico. Non solo, ma anche e soprattutto perché i suoni concreti hanno una “memoria”.
In fondo fare musica non significa tanto produrre dei suoni, ma vuol dire soprattutto comunicare, stimolare il rapporto tra la nostra memoria e le cose che sono fuori di noi, tra tanti suoni che conosciamo e riconosciamo o conosciamo solo in modo inconscio; e questo lo possiamo fare soltanto tramite suoni naturali che noi in qualche modo riconosciamo o perlomeno che hanno già una relazione con mondo.

Come si articolano, poi, questi suoni all’interno della sua composizione?

All’inizio di una nuova composizione non so mai cosa succederà veramente alla fine, quale sarà il risultato finale. E’ come partire per un lungo viaggio: si sa quando si parte, ma poi gli eventi e le nuove scoperte ti portano a cambiare molti dei tuoi progetti (a meno di non fare un viaggio organizzato, che ho sempre detestato).
Non credo, come invece succede in un famoso film di Milos Forman su Mozart, che un compositore riesca ad immaginare nella sua mente tutta una intera composizione. Se lo fosse questa musica sarebbe sicuramente troppo banale. Una composizione musicale per me deve crescere gradualmente nel tempo, lavorando sui suoni passo dopo passo, attraverso presupposti, verifiche, errori, scoperte casuali, disillusioni, illuminazioni. Senza una logica razionale insomma, ma con un costante ed inarrestabile processo di crescita. Alla fine l’oggetto è talmente complesso che non lo si può contemplare tutto “in una volta sola”. E anche per me il solo modo per capirlo è ogni volta di riascoltarlo.
Io tendo, come molti, a cercare sempre delle idee nuove che ovviamente non so come suonano fino a quando non si realizzano; devo scoprirle io per primo. Non posso sapere prima cosa succederà.
Il lavoro al computer in questo mi aiuta molto perché la possibilità di rappresentazione dei suoni in immagini mi dà la possibilità di vedere in un colpo d’occhio solo, il pezzo intero.

Riesce a “sentire” il pezzo guardandolo?

Questo no; la rappresentazione visiva del suono che da il computer è comunque una convenzione che non si può tradurre in sensazione uditiva, così come qualsiasi scrittura della musica non si può istantaneamente tradurre in suono. Una immagine globale del pezzo non può rendere la sensazione precisa del pezzo, però mi aiuta nel lavoro, è uno strumento del mestiere molto utile.
Salvatore Sciarrino, per esempio, che ha un modo di comporre apparentemente molto lontano dal mondo dei computer, lavora su schemi formali che rappresentano i suoi pezzi e che lui visualizza graficamente quasi esattamente come io li visualizzo sul mio computer. Si tratta di schemi molto interessanti che danno la visione globale del suo pezzo, esattamente come faccio io.

Nella sua musica è presente una sorta di suono di fondo che si percepisce solo prestandogli attenzione. Qual è il motivo di questa presenza?

Questo discorso si rifà alla concezione dello spazio sonoro pensato come un ambiente che ci circonda e che è sempre presente nelle mie composizioni. Quando penso *a un pezzo di musica, considero non solo gli elementi principali, ma anche l’ambiente in cui i suoni si trovano. Immagino -parlo molto schematicamente- almeno due livelli: la figura principale e lo sfondo. Lo sfondo non è quasi mai percepito chiaramente, però contribuisce creare l’atmosfera generale; lo sfondo dà significato all’immagine, al significato emozionale, soprattutto. E’ una regola molto importante della percezione.

Lei ha collaborato con molti scrittori. Che tipo di rapporto si viene a instaurare tra autore dei testi e musicista?

Il rapporto con gli scrittori per me è nato sempre dall’emozione che ho provato leggendo i loro testi, e dalla sensazione di condividere con loro un mondo in comune. La scelta dell’argomento, delle storie, è venuto sempre in un secondo momento. Poi dal punto di vista operativo non c’è quasi mai stato un rapporto di stretta collaborazione, in fondo scrivere testi e comporre suoni sono mestieri tecnicamente molto lontani.
In genere io inizio a lavorare quando il testo è terminato, le correzioni in seguito sono solo cose di poco conto. In molti casi scelgo un testo già fatto, come nel caso della già citata”Guerra dei Dischi”. Ma anche quando il testo viene scritto con l’intenzione precisa di farne un’opera sonora, come per esempio i testi di Valeri Magrelli, non mai pensato di discutere preventivamente, se non in modo molto generico, quello che il testo doveva rappresentare. E’ fondamentale per me non porre nessun vincolo allo scrittore, come anche che lui non ponga vincoli a me, e per questo serve una fiducia reciproca. Quello che cerco sempre di fare è di trasportare il mondo della parola scritta nel mondo dei suoni, rispettando al massimo l’idea del testo, e di arrivare con la musica e l’uso della parola “parlata” ad una maggiore profondità della comunicazione.

Nelle sue opere vocali c’è una grande attenzione alla voce parlata, che viene manipolata in modo molto affascinante. Che procedimenti usa per ottenere questi effetti?

Innanzi tutto è fondamentale avere a disposizione un’eccellente materia prima: le voci. Ripeto sempre ai miei allievi che per fare un buon pezzo la prima cosa, la più importante e anche la più difficile, è quella di partire da materiali di qualità e per questo occorre lavorare con interpreti molto bravi. Il lavoro di registrazione della voce è molto lungo. Per questo mi servono molte ore di lavoro con gli attori, per ottenere da loro il carattere e l’energia giusta.
Poi c’è una fase di scelta del materiale, di ascolto e di catalogazione, forse è la parte più lunga e noiosa, ma fondamentale per conoscere alla perfezione il materiale di cui si dispone. A volte per un pezzo di pochi minuti ascolto ore e ore di materiale.
La fase di elaborazione al computer è la più creativa e quella che mi diverte di più. Riesco spesso a cambiare le voci, non solo nel timbro, ma anche nell’inflessione ed nel senso delle frasi. Che procedimenti uso per ottenere questo? Potrei elencare decine di software che danno molte possibilità, ma la cosa più importante è provare e riprovare molto ed avere una direzione precisa verso la quale andare. Come per qualsiasi artigiano, più dell’utensile che usi è la tua abilità a creare che conta.

Insieme all’interesse per il teatro è evidente, dal suo catalogo, una passione per la danza che si sviluppa con la collaborazione con Lucia Latour…

La prima volta che sono venuto a Roma è stata nel 1979 per fare uno spettacolo con il “Gruppo di Lavoro Intercodice ALTRO”. In questo gruppo c’erano pittori, danzatori, fotografi, grafici, musicisti (tanti artisti appartenenti a diversi campi artistici), che lavoravano insieme per realizzare una cosa che si chiamava teatro, ma era anche molto di più. Il gruppo era guidato dal pittore Achille Perilli e Lucia Latour era una delle danzatrici del gruppo e una delle ideatrici principali. Questa esperienza è stata per me così straordinaria che ho deciso di stabilirmi a Roma, dove ancora abito.
In seguito il gruppo Altro si è sciolto ed è nata la compagnia di danza Altroteatro diretta da Lucia Latour. Con lei ho continuato a lavorare fino ai primi anni ’90 ed abbiamo realizzato insieme una decina di spettacoli, alcuni dei quali hanno avuto un grande successo, come per esempio “Anihccam”, spettacolo di danza ispirato a Fortunato Depero e rappresentato anche in varie città Europee.
Sono tuttora molto legato a questa esperienza che considero come la più importante della mia attività di musicista, e anche quella che ha segnato tutto il mio lavoro in seguito. Da “Altro” ho imparato cose molto importanti come la rigorosità e la precisione del lavoro, l’apertura mentale verso il mondo, la consapevolezza che la musica non deve essere fatta per l’ambiente dei musicisti (come l’architettura non è fatta per gli architetti, e così via) ma per tutta la cultura nella sua totalità.

La sua musica sembra quindi essere strettamente legata all’elemento visivo…

Credo che la dimensione visiva sia importante per la musica, perché, volenti o nolenti, è una dimensione ineliminabile della percezione. Non possiamo improvvisamente decidere di ascoltare astraendoci da tutti gli altri sensi. Anche chiudendo gli occhi abbiamo sempre una percezione visiva, spaziale, tattile che condiziona fortemente l’ascolto. E poi la percezione visiva è molto importante nell’ascolto.
Mi sembra che la sempre maggior consapevolezza delle leggi della natura ci porti sempre più verso linguaggi che considerano la percezione nella sua totalità. Per questo sono molto attratto dal teatro e dalla multimedialità. Non per niente la forma d’arte che più è andata in questa direzione, è diventata la più importante di questo secolo. Parlo del cinema.

Con Altroteatro mi occupavo principalmente di musica ma non solo. Discutevamo sempre in gruppo delle varie esigenze creative e funzionali, ed il livello progettuale era un momento di discussione sull’aspetto globale di uno spettacolo. Un’esperienza che mi ha formato molto e che mi accorgo ora non avrei avuto restando esclusivamente nel campo musicale.
In questo periodo mi sono occupato anche della realizzazione di multivisioni che facevano da scenografia alla danza, costruendo al computer la partitura di sincronizzazione tra suoni ed immagini.
In seguito, per alcune delle mie opere ho pensato personalmente anche una ambientazione visiva, che è parte integrante dell’idea musicale, come per esempio “Tupac Amaru” dove un’attrice è ripresa in diretta da una telecamera e la sua immagine viene elaborata elettronicamente.
Ma ancora preferisco lavorare collaborazione con artisti visivi. Credo di conoscere l’arte visiva abbastanza da capire quali sono i miei limiti, e allora cerco sempre collaborazioni stimolanti.

Lei ha composto un pezzo, Respiri, utilizzando un corno modificato. Ce ne vuole parlare?

Quello che mi ha spinto a scrivere un pezzo per corno è proprio questo stretto rapporto tra uomo e macchina, che nel corno raggiunge uno dei livelli massimi, essendo il corno moderno lo strumento più evoluto della famiglia degli ottoni. In uno strumento a fiato è il respiro che genera il suono. Soltanto dopo che l’esecutore ha prodotto il suono, lo si può modificare con lo strumento tramite una complessa tecnica che combina soffio, tensione del labbro, movimento della lingua e delle dita.
Respiri è un pezzo per suoni di corno: un solista dal vivo suona un corno preparato e amplificato con vari microfoni. Altri suoni di corno, registrati ed elaborati precedentemente in studio, vengono diffusi nella spazio da un sistema di dieci altoparlanti indipendenti.

Come è stato modificato lo strumento?

Al corno sono state applicate altre tre campane indipendenti, con relativo canneggio, che permettessero all’esecutore di decidere liberamente a quale campana trasmettere il suono generato. I tre cilindri dei pistoni del corno che servono a variare la lunghezza del canneggio in fa, e quindi l’intonazione, vengono svitati e aperti all’estremità inferiore (quelli del canneggio in si bemolle restano intatti). A questi vengono così fissati tre tubi di plastica di sezione adattabile alla misura del pistone che svolgono la funzione di canneggi supplementari e terminano all’altra estremità con un imbuto. Quando il cornista suona premendo un pistone si apre il canneggio relativo e il suono non esce più dalla campana originaria, ma dal tubo e dall’imbuto corrispondente.
L’intonazione dei suoni così prodotti non cambia più come prima ma resta approssimativamente sulla la nota armonica di fa, mentre il timbro cambia a seconda delle dimensioni del tubo e soprattutto della forma dell’imbuto (ovviamente il suono che esce dalle nuove campane è di qualità inferiore di quello del corno normale).
Questo tipo di preparazione è stato ripreso da una composizione dei primi anni ottanta del compositore canadese David Keane.
Con questa tecnica si possono ottenere anche sequenze di suoni ribattuti a una velocità normalmente impossibile per lo strumento, eseguendo una specie di tremolo tra un imbuto amplificato ed uno no.
In Respiri una grande importanza è stata data al timbro, sia nella parte dal vivo che in quella pre-registrata. Il timbro varia dal suono tipico dello strumento ai suoni più inusuali introdotti dalla musica del ‘900.

Il corno compare ancora ne L’Isola di Alcina, dove viene accostato ad una “voce romagnola”. Di cosa si tratta?

“L’isola di Alcina” è uno spettacolo del Teatro delle Albe di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari con il testo di Nevio Spadoni in dialetto romagnolo. E’ la rappresentazione dell'”instupidimento” di Alcina, maga/guardiana di cani della campagna romagnola, ispirata all’Alcina dell’Orlando Furioso di Ariosto.
Lo spettacolo è stato prodotto dalla Biennale di Venezia e dal Ravenna Festival , ed è stato rappresentato per la prima volta a Venezia nel maggio 2000 e sarà rappresentato in vari teatri nelle prossime stagioni.
“L’isola di Alcina” è un lavoro teatrale, ed ha come sottotitolo “concerto per corno e voce romagnola” che ne rivela la particolarità . Si tratta realmente di un’opera musicale con voce solista, e la musica, sempre presente, è appunto realizzata con gli stessi suoni di corno che ho utilizzato per “Respiri”. La voce principale invece è di Ermanna Montanari, straordinaria attrice, che usa la voce in una tale varietà di suoni e timbri come non avevo mai sentito prima.
Tra l’altro abbiamo anche realizzato un CD del lavoro uscito in questi giorni.

Parliamo di un’altra composizione per fiati: Birds, che ho trovato simile al pezzo per clarinetto basso di Reich.

New York Counterpoint è una sovrapposizione di melodie che variano lentamente nel tempo sovrapponendosi con leggere differenze. Nel mio pezzo per clarinetto basso al contrario le variazioni sono a blocchi e a sovrapporsi sono singoli suoni. Il lavoro di Reich potrebbe quasi essere eseguito da altri strumenti, in quanto l’idea musicale è legata principalmente alla variazione graduale della melodia, il mio invece è pensato esplicitamente per i suoni del clarinetto basso, e non potrebbe essere eseguito mai con un sax, per esempio, o con un clarinetto in si bemolle; cambierebbe tutta la natura del pezzo. In comune i due pezzi hanno la pulsazione ritmica e il timbro inconfondibile del clarinetto basso. Sono somiglianze quasi superficiali.
Conosco benissimo il pezzo di Reich, è un esercizio che spesso fanno i miei allievi, a cui chiedo di rifare la parte del nastro su un registratore multipista. E’ un lavoro apparentemente facile, ma che richiede molta precisione; sincronizzare tutte le piste è un problema serio, perché se non si è precisissimi sin dall’inizio ci si accorge a metà che non controlla più niente e deve ricominciare tutto da capo.

I suoni dello strumento (rumori di chiavi, respiri), presenti spesso nelle sue composizioni, acquistano una autonomia propria, un fascino indipendente.

Lavorando con il computer è possibile considerare questi suoni come facenti parte della creazione; nella musica strumentale questo non è possibile perché ovviamente sono considerati suoni accessori e non utilizzabili. Al computer posso tranquillamente isolare questi suoni e considerarli come indipendenti. Nel pezzo per sassofono, per esempio, ho composto separatamente i suoni dell’ancia e quelli delle chiavi; sono due linee completamente diverse*. E’ venuta fuori una partitura completamente diversa per suoni e per chiavi.

Come è nato il lavoro all’Edison studio?

L’Edison studio è una associazione nata insieme ad altri compositori: Alessandro Cipriani, Fabio Cifariello Ciardi e Mauro Cardi. Lo studio è nato più o meno quattro anni fa con l’idea di costruire un laboratorio dove scambiarci le conoscenze tecniche, idee, e dove poter produrre i nostri pezzi e *di altri compositori esterni. Nel tempo ci siamo trasformati in un gruppo di consulenza: ognuno di noi lavora a casa, ognuno di noi ha lo stesso studio replicato per quattro, con le stesse apparecchiature. In questo modo possiamo scambiarci dati, software, suoni, competenze. Non abbiamo più l’idea dello studio tradizionale, ma di quattro piccole isole che lavorano insieme dal punto di vista tecnico. Ora stiamo cominciando un lavoro di aggiornamento del sito per dare a tutti la possibilità di prendere dei suoni che possono servire per un uso generale e per inserire i nostri pezzi di musica.

Con quali altri centri collabora?

Con il CRM, a Roma, con lo studio Agon, a Milano, dove è stato fatto il pezzo per corno; poi molto spesso al’Imeb, a Bourges, uno dei più grandi centri francesi; dal quale negli ultimi quattro anni ho avuto tre commissioni e tre pezzi. Nel mese di marzo di solito sono lì.

Diventa molto difficile, senza una preparazione scientifica, affrontare la musica al computer?

E’ una questione di forma mentis, bisogna avere le basi di una mentalità scientifica. Per rappresentare un suono è importante sapere cos’è una frequenza, una frequenza, sapere interpretare i diagrammi.
All’istituto tecnico, tanti anni fa, non capivo a cosa mi potesse servire quello studio. Non sono stato uno studente modello, però mi sono accorto della differenza fondamentale tra la mia mentalità e quella di un allievo di conservatorio.

Forse il problema è lo stesso di chi non impara sin da giovane e suonare uno strumento. Dopo i vent’anni diventa difficile.

Sì; arrivati a una certa età non si acquisiscono più tanto facilmente gli automatismi, diventa difficile fare propria una certa mentalità, padroneggiare una tecnica senza pensarci, lasciando la mente sufficientemente libera per i problemi musicali.
Fare musica al computer è una attività complessa, ma in fondo non più di quella di scrivere musica tradizionale, alla quale però siamo abituati da secoli. Per me è molto più semplice e immediato usare il sistema di rappresentazione cartesiana invece del pentagramma. Ho sempre scritto la musica così, anche quando ero studente: a parte i corali o le armonizzazioni, per esempio, i miei pezzi erano sempre scritti su carta millimetrata. Comunque io cerco di non pensare mai alla scrittura della musica, uso la notazione soltanto come mezzo; cerco di lavorare direttamente sul suono e di ascoltare con le orecchie e non con gli occhi.

Quanto riascolta un suo pezzo?

Quando devo realizzare un master per un disco devo riascoltare un pezzo per centinaia e centinaio di volte perché in un disco anche il più piccolo errore si ripeterebbe poi ogni volta che si riascolta. Per questo sono un perfezionista. Io dico che il pezzo non è finito fino a quando non arrivo a odiarlo, fin quando non lo sopporto più. Poi non riascolto mai più i miei dischi una volta finiti. Un pezzo stampato su disco è come se non fosse più per me, ma per gli altri.
Invece in concerto, dal vivo, ogni volta è una emozione vera, ogni volta mi sembra un miracolo che si ripete.

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