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Luigi Ceccarelli

Pubblicazioni

Appunti di un contaminato

Luigi Ceccarelli
Appunti di un contaminato
tra rock, tecnologia ed evoluzione

pubblicato sul Libro + CD
Zodiaco Elettrico
AIDORU performs Karlheinz Stockhausen’s Tierkreis
editore NdA Press 2012 – Collana interno4 records – Pagine 64
ISBN 9788889035634

 

 

Ascoltare è una attività umana importante proprio perché crea una connessione intima con le attività dinamiche della vita, sia umane che naturali. Infatti il suono non lo ascoltiamo tanto per percepire un evento sonoro in sé, con i suoni noi trasportiamo gli eventi nella nostra coscienza.
(Barry Blesser, Linda-Ruth Salter – Space Speak, are you listening ?)

Dall’inizio degli anni ’60 fino ai primi anni ’70 la musica rock è stata per le giovani generazioni un formidabile strumento di emancipazione culturale i cui effetti sono evidenti anche oggi, anche se la musica da allora è molto cambiata. La musica rock in quegli anni è stata il motore trainante di un rinnovamento dei costumi e del pensiero, verso una ideologia di maggior libertà in cui le distinzioni di classe sociale sembravano venir meno.

La musica rock dell’epoca non si può considerare soltanto come musica giovanile, utile principalmente in quanto aggregatore sociale, ma è stata anche l’inizio di una radicale evoluzione del linguaggio musicale che ha superato per importanza qualsiasi altro genere, contribuendo anche all’abbattimento del confine tra musica colta e musica popolare, fino ad allora fortemente differenziate.

Il termine musica rock è usato da un larghissimo spettro di musicisti e di ascoltatori, e con diverse finalità di destinazione che vanno dalla musica più commerciale (legata a filo doppio con la musica pop) alla ricerca più radicale e specialistica, comprendendo anche tante strade intermedie che creano percorsi a volte anche molto inusuali e stravaganti. Non sempre però la direzione populistica e quella colta e raffinata sono da considerarsi divergenti: il vantaggio che ha avuto la musica rock degli anni ’70 rispetto alla musica d’avanguardia “colta” (erede della tradizione più intellettuale e per questo limitata ad un ambito ristretto) è quello di essere riuscita a creare nel pubblico una disponibilità ad un ascolto a volte anche molto impegnativo. Pezzi rock che per la loro complessità richiedono un ascolto concentrato potevano riuscire ad ottenere un successo di pubblico.

Nel ‘68 avevo quindici anni, e le mie passioni, i miei rapporti sociali, le mie relazioni sentimentali, insomma tutto il mio mondo era legato indissolubilmente a quella musica. Facevo il batterista rock e vivevo in quell’ambiente, in quei suoni, senza pormi il problema di che cosa ci fosse stato prima e che cosa sarebbe venuto dopo; quella musica era per me una presenza naturale. Alla giovane generazione di allora sembrava che la musica rock fosse innata, e soprattutto che sarebbe continuata così per sempre.

Ad alimentare il suo fascino contribuiva certamente la sua provenienza straniera, nella speranza di una emancipazione da una cultura rimasta nel nostro paese provinciale ed arretrata. La musica rock italiana era effettivamente un derivato da cultura di provincia, con i nostri artisti più importanti che copiavano di sana pianta le canzoni in inglese più famose e le pubblicavano con parole tradotte in italiano, spesso con testi di scarsa qualità. Ancora non esisteva una diffusione a livello globale della musica, e le informazioni dal resto d’Europa e dagli Stati Uniti non erano poi molte. I dischi venuti dall’estero bastavano a farci sentire parte del mondo.
Come musicisti, comunque, ci si metteva molto impegno nella musica che si suonava, protési sia a inventare pezzi nuovi che a rifare i pezzi stranieri. A differenza di oggi l’informazione non si diffondeva attraverso documenti video visto che la tecnologia video era ancora alle prime armi, e così la musica, il suono, era molto più importante rispetto ad oggi, perché aveva scarse corrispondenze visive. E spiega il fatto che la musica abbia avuto un ruolo fondamentale per la diffusione del pensiero di quegli anni. Anche nei concerti dal vivo ci si accontentava di molto poco dal punto di vista scenografico, l’unica fonte di informazione e di emozione era il messaggio musicale che poteva quindi essere più libero ed elaborato di quel che mediamente succede oggi. Guardando uno dei film-documentari più interessanti dell’epoca sul concerto di Woodstock del 1969, quello che ci stupisce di più è la quasi totale assenza di sovrastrutture tecniche: luci, scene, amplificazione. Tutto è concentrato sul rapporto diretto tra artista e pubblico, attraverso il suono e il suonare uno strumento.

Si può fermare il tempo? Per molti è possibile, basta ignorare il mondo, rimanere sempre nella stessa tribù, abbandonarsi alla sicurezza di ciò che già si conosce bene. Basta limitarsi al genere musicale preferito e ascoltare all’infinito le infinite variazioni di una musica sempre uguale a se stessa. Ci sono tante persone che in fondo per tutta la vita ascoltano sempre lo stessi brano musicale. Forse anche questo può essere appagante……Nel mondo reale invece le cose nel tempo cambiano.
All’inizio degli anni ’70, arrivò la “disco music”, che infranse i miei sogni di batterista rock. La “disco music” è stata per la musica pop, ma anche

in parte per la musica rock, l’equivalente delle invasioni barbariche per l’impero romano. Il mondo è stato conquistato dalla rozza pulsazione meccanica delle macchine, e ancora oggi non se ne è liberato. Da allora i generi musicali commerciali sono banalizzati dalla pulsazione del clic digitale. La batteria elettronica ha distrutto la musica occidentale così come l’armonium temperato ha distrutto le modalità melodiche della musica indiana. Anche noi siamo stati colonizzati, ma da noi stessi.

La delusione per la direzione presa dalla musica mi rese frustrante fare il batterista e cominciai subito a essere annoiato da quel nuovo clima. Non che il rock non si suonasse più, ma la sensibilità comune era cambiata, la musica incominciava a diventava sempre più prevedibile e non appagava la mia necessità di invenzione continua – perché per me fare il batterista non significava solo “battere” il tempo, ma soprattutto creare variazioni del tempo -. Il rock stava diventando sempre di più un fenomeno commerciale e io incominciavo a sospettare che forse c’era qualcos’altro di interessante al di fuori di questo.

Fu allora che la necessità di stimoli diversi mi portò ad iscrivermi al corso di Musica Elettronica del Conservatorio, spinto dalla curiosità di unire le competenze elettronico-industriali datemi dalla scuola, a quelle musicali. Lo so che il Conservatorio è – appunto – il luogo della conservazione della musica. Confermo, è assolutamente vero! Da un certo punto di vista non è l’ambiente ideale per chi sente di far parte di una società in evoluzione continua. Ma è anche l’unico luogo dove si trovano nello stesso momento le tipologie di musica e di musicista rappresentate in uno spettro larghissimo: dallo specialista in canto gregoriano al compositore di musica elettronica. Certo occorre imparare ad orientarsi e rendersi conto che anche i livelli di qualità sono variabili (in Conservatorio si può trovare come insegnante il concertista che fa tournée in tutto il mondo, ma anche il docente che insegna da quarant’anni e di concerti non ne ha mai fatto uno). Lì sei nel punto di incontro tra ogni livello ed ogni idea di musica, tra passato remoto, presente e futuro prossimo, e forse quello è il solo luogo in cui si può capire perché certi valori cambiano nel tempo, e altri restano….. E così è iniziata la mia contaminazione.

“Portare nella musica tutti i nuovi atteggiamenti della natura, sempre diversamente domata dall’uomo per virtù delle incessanti scoperte scientifiche. Dare l’anima musicale delle folle, dei grandi cantieri industriali, dei treni, dei transatlantici, delle corazzate, degli automobili e degli aeroplani. Aggiungere ai grandi motivi centrali del poema musicale il dominio della Macchina ed il regno vittorioso della Elettricità.” (Balilla Pratella: “La musica Futurista – Manifesto Tecnico” – 1911)

Tra i musicisti che per primi hanno realizzato opere di musica elettronica e gli inventori di strumenti musicali elettronici c’è una sostanziale differenza nel concepire il termine “musica elettronica”. I costruttori degli strumenti musicali elettronici non pensavano che i loro strumenti dovessero avere una funzione diversa da quelli tradizionali, consideravano che la musica, anche se eseguita con strumenti diversi, avrebbe continuato più o meno il suo corso. Léon Theremin, inventore nel 1919 del primo strumento elettronico – appunto quel Theremin oggi ritornato tanto in voga – aveva concepito il suo dispositivo per eseguire la musica classica, tanto che la più celebre interprete di questo strumento fu una violinista classica, Clara Rockmore. Diversamente i compositori dell’epoca, hanno utilizzato la nuova tecnologia con la volontà di creare una nuova estetica che rinnovasse radicalmente il modo di intendere la musica. Avere a disposizione nuovi strumenti non era tanto una questione tecnica, ma una occasione per creare una nuova estetica musicale, un modo diverso di intendere il suono e di ascoltare, assecondando in questo lo spirito di rinnovamento della società.

E’ da questa necessità che sono nate, tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ‘50 la Musica Elettronica – intesa nella sua accezione storica – e la Musica Concreta. Non sono nate però nelle cantine, come porterebbe oggi a farci credere una storia romanzata, ma in due centri di sperimentazione tecnologica allora d’eccellenza: lo studio della radiotelevisione francese (RTF) e lo studio della radio tedesca Westdeutscher Rundfunk (WDR).

La musica concreta si è servita per la prima volta della tecnica della registrazione audio per fini creativi. Lo scopo non era quindi la mera memorizzazione di eventi sonori, ma la realizzazione di opere di “arte sonora” attraverso un uso creativo della tecnologia.

Macchine che erano costruite per memorizzare il suono con la maggior oggettività possibile venivano usate in modo “improprio”, per creare suoni elaborati rispetto alla loro origine naturale. Quando un suono è stato registrato lo si può manipolare in tanti modi, come riprodurlo al contrario o “a loop” per un numero indefinito di volte, oppure lo si può riprodurre più lentamente o più velocemente, e si possono mettere insieme suoni che diversamente non potrebbero mai convivere. Quando un suono è registrato su di un nastro magnetico la sua durata viene trasformata in spazio, in lunghezza: la lunghezza del nastro si sostituisce alla durata nel tempo. Se non siamo in grado di controllare il tempo, lo spazio lo possiamo controllare molto meglio.

Con pochi espedienti tecnici, che sarebbero oggi considerati primitivi, Pierre Shaeffer nel 1948 ha realizzato i suoi “Cinq études de bruits” presso la Radio Francese dando inizio ad una nuova arte della composizione sonora. In una sola volta vengono rimessi in discussione tutti i canoni estetici di quasi mille anni di musica. I suoni di questi pezzi musicali sono organizzati non secondo i tradizionali criteri dell’armonia e del sistema temperato ma in base alle loro caratteristiche fisiche di timbro e l’intensità. La dicotomia suono – rumore viene annullata, non vi sono più differenze gerarchiche ed estetiche tra suoni musicali e rumori, tutto ciò che è udibile diventava potenziale materiale per una composizione musicale .

Al contrario della musica concreta, nella musica elettronica il suono è una entità completamente astratta. All’inizio degli anni ’60 in alcuni studi radiofonici europei si inizia la produzione di musica creata con oscillatori elettronici. In questo caso il suono non è prodotto da una vibrazione meccanica, ma viene generato da un circuito elettrico e riprodotto direttamente da un altoparlante. Il suono che ne risulta quindi non è attribuibile ad alcuna azione di un esecutore strumentale. Il primo esempio di Musica Elettronica è “Studio 1” realizzato nel 1953 da Karlheinz Stockhusen presso la radio tedesca Westdeutscher Rundfunk, subito seguito da “Studio II”. Due composizioni interamente realizzate con oscillatori sinusoidali in cui i suoni non sono organizzati come singoli strumenti musicali, ma come parti elementari di una variazione timbrica continua.

Il Laboratorio di Musica Elettronica del Conservatorio di Pesaro all’inizio degli anni ’70 era quanto di meglio attrezzato si potesse trovare in Italia, vi si potevano

trovare le macchine più avanzate del momento. C’erano registratori Ampex, sei generatori di onde e due di rumore bianco , e poi filtri, modulatori ad anello, mixer e un sistema di ascolto quadrifonico.

Fino alla metà degli anni ’80, non esistevano ancora i personal computer e le apparecchiature per la musica elettronica erano molto costose, perciò era praticamente impossibile per un singolo musicista allestire uno studio privato, così in un primo periodo la musica elettronica poteva essere realizzata soltanto nei laboratori delle radio o delle università. C’erano, è vero, i sintetizzatori analogici (come Moog, ARP, VCS3), ma anche quelli erano molto costosi e i modelli economici erano molto limitati. E comunque i sintetizzatori (a parte alcuni VCS3 ed Moog) erano stati creati per essere venduti ad uno spettro ampio di utenti e quindi piuttosto indirizzati verso la musica commerciale. Erano usati per lo più per creare “effetti sonori” o timbri strani ma sostanzialmente il loro uso era piuttosto convenzionale, addirittura per la musica commerciale erano stati dotati di tastiera!. I primi sintetizzatori erano infatti senza tastiera, dato che una delle prime regole estetiche della musica elettronica è sempre stata la libertà totale dal sistema temperato e dalla notazione tradizionale – come si poteva limitare una macchina a produrre i suoni di una sola scala quando si potevano riprodurre esattamente tutte le altezze possibili? La dotazione della tastiera ai sintetizzatori “suona” ai puristi come un’eresia.

A quei tempi i centri di produzione di musica elettronica erano veramente pochi, non più di una trentina sparsi per il mondo. Un universo molto piccolo e chiuso quindi, dove si sperimentavano nuovi suoni e nuovi linguaggi senza necessità commerciali, e dove veniva creata una musica che non trovava spazio nei grandi concerti, ma che era estremamente viva.

Per tutto il periodo degli anni ’70 ho frequentato il laboratorio del Conservatorio trascorrendo molte ore al giorno ad ascoltare la gran parte della musica elettronica prodotta nel mondo, a studiare l’acustica e i manuali tecnici, a tagliare e montare nastri magnetici, a sperimentare suoni nuovi ed elaborazioni stranianti. Un tirocinio che mi ha permesso di realizzare varie composizioni, restando isolato da tutto l’ambiente musicale che avevo frequentato fino a poco prima.

Poco dopo l’inizio dei miei studi in Conservatorio avevo dimenticato completamente la musica rock, affascinato da quell’ambiente ricchissimo di informazioni che mi aprivano un mondo di complessità inimmaginata ed esclusiva. Ma oltre alla musica elettronica avevo anche il bisogno di avere una visione chiara della cultura musicale nel tempo. Se la musica che avevo frequentato fino ad allora era nata soltanto pochi anni prima, in Conservatorio lo studio della storia della musica,inizialmente considerato con molta sufficienza, mi ha aperto la possibilità di spaziare entro confini distanti tra loro più di mille anni e non limitati ai miei vent’anni.
Ho studiato appassionatamente la musica dei secoli passati per qualche anno. L’interesse nella musica del passato, al di la del piacere personale dell’ascolto, non

era per me tanto nel riscriverla o nel suonarla, quanto finalizzato alle esigenze di fare musica oggi, un tentativo di intravedere chiaramente un arco temporale, quell’arco senza soluzione di continuità che dal canto gregoriano arriva alla musica elettronica e alla musica rock.

Fatti i dovuti rapporti con la società e le tecnologie delle varie epoche, credo che la sonorità di un concerto di Beethoven non fosse meno impressionante di un grande concerto rock di oggi, e che il timbro degli strumenti di un concerto barocco non sia oggi meno piacevolmente aspro di quello di una band hard metal (se qualcuno ha mai sentito il suono di un clavicembalo adeguatamente amplificato si sarà reso conto di quanto il suo suono sia aggressivo).

Nella musica, a parità di valore artistico, quel che cambia è principalmente la tecnologia degli strumenti e l’adeguamento al sempre più alto rumore di fondo della nostra civiltà. Il linguaggio tutto sommato non cambia un gran ché. Quel che invece resta invariato è il fattore umano. Nel tempo cambiano i generi e gli stili in rapporto ai cambiamenti della società. Cambia la tecnologia, cambiano i modi di rappresentazione e di comunicazione, ma la qualità “artistica” resta mediamente sempre la stessa. Con un vantaggio per la musica del passato: il tempo ristabilisce più equità di giudizio, cancellando le banalità, cosa che nella musica del proprio tempo sono invece preponderanti.

“Telemusik” è una composizione realizzata da Stockhausen nel 1966 presso lo studio della radio giapponese (NHK) di Tokio. Il pezzo è su nastro magnetico a 5 piste ed è realizzata partendo da registrazioni di musiche e suoni di varie culture, provenienti da diversi luoghi della terra. A queste sono stati inoltre aggiunti anche vari suoni elettronici. Lo scopo di Stockhausen era quello di realizzare una composizione “universale” attraverso un processo di intermodulazione tra le varie registrazioni, dove potessero fondersi in un unico linguaggio i nuovi suoni avveniristici del presente con i suoni tradizionali del passato, e attraverso la musica di far così convivere nello stesso momento luoghi lontani tra loro, nel tempo e nello spazio.

Oggi vivendo in unico insieme globale e interconnesso ci sembra piuttosto ovvia la compresenza di tante culture diverse, ma nel 1966 questo non era così scontato. Per i musicisti il desiderio di conoscere le musiche di altre culture nasce prima della globalizzazione, come molto prima è venuta nelle arti contemporanee la consapevolezza che ogni cultura di qualsiasi paese del mondo è portatrice di un linguaggio originale, di pari profondità del nostro.

E’ noto come le avanguardie artistiche europee del primo novecento, in special modo pittura e scultura, abbiano avuto una forte influenza dalle culture extraeuropee, e molte opere degli artisti più imortanti del primo novecento, tra questi Picasso, Brancusi o Modigliani, hanno chiaramente una influenza africana. Anche i musicisti europei iniziano in quell’epoca ad essere consapevoli che il linguaggio musicale occidentale non è superiore a quello di altre culture extraeuropee.

Nel 1889 per esempio l’ascolto delle orchestre Gamelang Balinesi e Tailandesi all’Esposizione Universale di Parigi, aveva impressionato talmente per la sua originalità il ventisettenne Claude Debussy che ne studiò approfonditamente le tecniche. Non per niente Debussy è considerato oggi da molti il primo musicista moderno. Da allora abbiamo assistito ad una crescente ed inarrestabile processo di integrazione delle musiche di tutto il mondo i cui risultati sono ancora in divenire, anche se purtroppo il mercato musicale ne sta livellando la qualità verso il basso. Con la globalizzazione si stanno perdendo una grande quantità di culture musicali locali, si stanno perdendo le diversità dei linguaggi musicali, perché se ne colgono spesso soltanto gli aspetti superficiali.

L’interesse per le culture musicali degli altri paesi per me è stata inizialmente soltanto una piacevole curiosità, ma nella prima metà degli anni ’80 è entrato a far parte del mio status di musicista. Per guadagnarmi la vita avevo accettato da amici l’incarico di occuparmi della regia del suono dei concerti del Festival Panasiatico che in quegli anni si svolgeva a Roma. Ho avuto così la possibilità di incontrare alcuni tra i musicisti più importanti di paesi di diversa cultura musicale: Indiani, Pakistani, Tibetani, Coreani, Tailandesi, Giapponesi e Arabi di varie nazionalità. Passavo molto il tempo con loro, affascinato dalla scoperta della lo A parte il fatto che ognuna di queste culture musicali è molto diversa dall’altra, ho sempre trovato una profondità, una sapienza e una complessità che non ha nulla da invidiare alla nostra musica. ro musica e dalle loro qualità musicali. Il mercato ha creato per tutte queste musiche la generica etichetta di “worldmusic”, cercando molto spesso di presentarcele come una musica allegra o meditativa, ma comunque semplice.

La tecnica e la preparazione dei musicisti è sempre altissima, e anche se ormai la musica commerciale globale si è diffusa anche in quei paesi, per quel che riguarda la loro musica tradizionale la differenza tra musicista dilettante e professionista è sconosciuta, e i musicisti devono comunque acquisire una grande perizia prima che gli venga permesso di suonare in pubblico.

Alcune concezioni musicali di quelle tradizioni, praticamente sconosciute nella nostra cultura, oggi sono diventate parte anche del nostro universo musicale. La tecnica vocale dei monaci tibetani e dei cantanti mongoli basata sulla produzione di suoni complessi e inarmonici è un esempio dell’uso della voce in funzione timbrica e non in funzione melodica, e questo ha influenzato molto la musica contemporanea. E’ stato impressionante per me, per la prima volta ascoltare dieci monaci che partendo da una nota grave tenuta, in trenta e più minuti glissavano tutti insieme lentamente ad un suono sempre più acuto. Non era una melodia, soltanto una variazione timbrica. Oppure ascoltando i suonatori di Tabla indiani si capisce come il ritmo sia un concetto molto più musicale e creativo della nostra concezione occidentale. Ascoltare due musicisti come Alla Rakka, l’anziano tablista di Ravhi Shankar, e suo figlio Zakir Hussein, e riuscire a seguire i loro fraseggi che si inseguono in un gioco di complessità e di virtuosismo crescente è un’esperienza fisica e intellettuale allo stesso tempo, irripetibile anche con i più bravi batteristi jazz. Un altro esempio stupefacente di variazione musicale del ritmo lo possiamo trovare nei suonatori di Txalaparta baschi. Altro che le batterie elettroniche, ogni battuta è una piccola variazione della precedente, in una variazione continua e fluente.

Se nei primi anni di studio della Musica Elettronica avevo abbandonato completamente la musica rock, con il tempo mi sono molto riavvicinato e ora, che mi sembra di riuscire a guardare quel periodo con più obbiettività, mi rendo conto di come sia stato il momento più importante della mia formazione di musicista, il momento in cui si è formata la mia sensibilità musicale, che in seguito ha avuto molti altri apporti tecnici e culturali, ma fondamentalmente non è cambiata.

Nel 1994 avevo ottenuto una commissione da Rai Radio3 per realizzare un’opera musicale con il testo di uno scrittore italiano. Scelsi un testo di Stefano Benni dal titolo “La guerra dei dischi” , che è di un testo di fantascienza post-apocalittico e racconta di una guerra tra due case discografiche in cui si sono descritti i generi di musica rock di un futuro prossimo, il 2026. Quella era l’occasione giusta per ritornare nel mondo della musica rock dopo 20 anni di abbandono completo. La sfida era quella di fare, appunto, il rock fantascientifico dell’anno 2026. Mi sono divertito molto a realizzare in suoni il testo di Benni, considero questa opera una dei miei lavori più riusciti. Da allora ho inserito spesso sonorità rock nelle mie composizioni. Nel 2004 ho anche realizzato una intera opera – diciamo di carattere rock – con il Teatro delle Albe dal titolo “La Mano”.

Certamente il mio intendere rock è personale, Benni dice a proposito della “Guerra dei Dischi” che sono riuscito a fare un pezzo rock senza melodie. Non ho mai preteso di rifare un pezzo rock canonico, ma di contaminare la mia musica con lo spirito e le sonorità del rock. E poi è vero che detesto le melodie.

L’aspetto della musica rock che più l’ha resa innovativa è sicuramente la dimensione timbrica, la “sonorità”, a scapito della struttura melodica e armonica. La stragrande maggioranza del rock, rispetto per esempio alla musica jazz o alla musica classica, segue modelli che dal punto di vista esclusivamente armonico e melodico sono molto elementari, addirittura banali. Questa “semplicità” però consente la focalizzazione del messaggio musicale sul timbro, elemento potenzialmente molto più complesso e raffinato. D’altra parte anche la musica contemporanea colta ha fatto la stessa cosa pochi anni prima. Nelle opere dodecafoniche di Webern la melodia viene praticamente annullata in piccole serie di melodie di massimo tre note per dar modo di rendere percepibili le altre caratteristiche del suono – Per quel che riguarda la struttura armonica delle mie opere rock, ho adottato il massimo della semplificazione, non usando mai nessuna successione di accordi, ma un solo accordo per tutto il tempo.

Gli strumenti musicali nella musica rock, principalmente la chitarra elettrica amplificata e distorta, sono un potente mezzo di invenzione timbrica. L’evoluzione della tecnologia in fondo non ha fatto altro che seguire la ricerca dei musicisti nella creazione di suoni sempre più elaborati. Le invenzioni quasi mai avvengono per caso, alla loro base c’è sempre una esigenza, intellettuale prima e operativa poi, ed è appunto la necessità di esprimere una musica diversa che ha portato alla realizzazione di strumenti nuovi.

La produzione di musica, come in tutte le arti in cui l’opera è un oggetto “tangibile”, è inscindibile dalla tecnologia. (La musica di Beethoven senza il pianoforte, perfezionato proprio in quegli anni, non sarebbe stata quella che conosciamo).

L’amplificazione ha permesso la creazione di una nuova estetica della musica, radicalmente diversa da tutto quello che c’era prima. Il suono della rock band a pensarci bene è stata una novità sconvolgente, l’uso dell’amplificazione non è semplicemente un apparato tecnico per suonare più forte, ma una nuova concezione del suono e del timbro che usa l’elettronica per la creazione del timbro stesso e per questo fa parte essenziale dell’invenzione musicale.

La nostra mente contiene delle caselle per la comprensione delle cose e l’informazione che raccogliamo sul mondo finisce inevitabilmente in tali caselle. Ciò pone un freno a qualunque pretesa di conoscere qualcosa delle natura ultima delle cose… John Barrow

Da sempre le culture interagiscono, la storia della musica è fatta da un susseguirsi di generi musicali che si influenzano e si contaminino tra loro creando a loro volta nuovi generi, e se guardiamo il tutto in una prospettiva storica un po’ ampia, possiamo facilmente tracciare una linea continua che va dal canto gregoriano all’indie rock e facendo in più il giro del mondo.

Oggi la quantità di musica che si può ascoltare è impressionante. Grazie alla tecnologia digitale e ai mezzi di comunicazione convivono nello stesso spazio una immensa quantità di musiche di generi diversi.

Sembra un momento estremamente caotico e praticamente impossibile da catalogare, ma molto vitale ed eccitante, paragonabile forse soltanto al periodo tra l’XI e il XIII secolo. Era quella l’epoca dell’invenzione e del perfezionamento della scrittura musicale e della nascita delle leggi armoniche. In quegli anni si è a poco a poco costruita tutta la concezione della musica occidentale che è restata valida fino a poco tempo fa, selezionando tra una miriade ti teorizzazioni, a volte molto contrastanti.

Ma ora l’impresa da compiere è molto più complessa, perché abbiamo a che fare con “tutta” la musica contemporaneamente, sia dal punto di vista storico, ma, soprattutto con tutte le musiche di tutte le culture del pianeta: che lo si voglia o no siamo una società globalizzata.

Tutta la musica oggi è divisa per generi musicali. Capisco che questo può avere una certa utilità dal un punto di vista pratico – per cercare di non perdersi. Ma nessuno ha mai pensato di catalogare la musica per la qualità?

Capisco che sia molto difficile, sicuramente ogni catalogazione sarebbe opinabile, ma contare i generi musicali è veramente fuorviante, un po’ come contare le nuvole, un’impresa disperata.

E allora forse il metodo di catalogazione dei generi non funziona più. Forse è inutile rincorrere il nascere di ogni nuovo genere musicale. Forse la catalogazione per generi musicali è soltanto un espediente del mercato per proporci continuamente nuovi prodotti che in realtà di nuovo hanno solo la confezione e non la sostanza. Utile per il musicologo senza fantasia ma devastante per chi vorrebbe capire e apprezzare la musica. E per i musicisti poi, i generi sono diventati ghetti dai quali è difficile uscire.

Quando mi chiedono che genere di musica scrivo sono sempre molto imbarazzato. Sono totalmente incapace di rispondere. Mi sento così lontano dal concetto di “genere” musicale. La mia musica non appartiene ad alcun genere, perché i generi musicali non sono i contenitori della musica di oggi, ma sono solo gli ingredienti.

note

[1] Blesser, B, Salter, L. R, Space Speak, are you listening ? , the MIT Press, 2006.

[1] http://www.futurismo.altervista.org/manifesti/musicistiTec.htm

[1] http://en.wikipedia.org/wiki/Theremin

[1] http://en.wikipedia.org/wiki/Cinq_études_de_bruits

[1] Schaeffer, P., A la recherche d’une musique concrète, Paris : Seuil, 1952, e Schaeffer, P., Traité des objets musicaux, Paris : Seuil, 2/1976

[1] http://www.stockhausen.org/

[1] le onde sinusoidali sono suoni puri, privi di armonici. Ogni suono può essere scomposto in una serie di onde sinusoidali armoniche tra loro (Teorema di Fourier). Su questo principio è oggi basata la maggior parte dei sistemi digitali di elaborazione del suono.

[1] Al pari del colore bianco che nella luce è l’insieme omogeneo di tutti I colori dello spettro visibile, così il rumore bianco per il suono è l’insieme di tutte le frequenze dello spettro udibile.

[1] “La guerra dei dischi” è un capitolo del romanzo “Terra!” di Stefano Benni (Feltrinelli 1983). Il testo è utilizzayo integralmente, ma per dargli un senso compiuto separato dal romanzo Benni ha aggiunto appositamente un prologo.

[1] Barrow, J. D., The Infinite Book. A short guide to the boundless, timeless and endless,  2005 Mondadori, Milano