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Luigi Ceccarelli

Pubblicazioni

Note sul rapporto tra musica e testo nell’Isola di Alcina

In “Il parlar franco” (Rivista di cultura dialettale e critica letteraria) pp.27-35. Villa Verucchio (RN): Pier Giorgio Pazzini Stampatore Editore. 2002

Note sul rapporto tra musica e testo nell’Isola di Alcina

Ogni passo dell’evoluzione è un’aggiunta di informazioni a un sistema già esistente. Per questo motivo le combinazioni, le armonie e le discordanze tra elementi e strati di informazione successivi presenteranno molti problemi di sopravvivenza e determineranno molte direzioni di cambiamento.
Gregory Bateson (Mente e Natura)

Anche per un compositore come me, da sempre vicino al teatro musicale ed alle nuove tecnologie, e che da diversi anni ha riscoperto il radiodramma ed il melologo come nuove forme espressive, la proposta di realizzare un lavoro teatrale con un testo in dialetto romagnolo è stata in un primo tempo piuttosto spiazzante.
Primo perché da romagnolo, costretto ad emigrare più di vent’anni fa per poter fare il musicista, era la prima volta che mi veniva offerta l’occasione di tornare a lavorare nei miei luoghi di origine. Secondo motivo, che mi preoccupava di più, perché, pur amandolo molto, il dialetto l’avevo fino allora considerato come una lingua dedicata esclusivamente alla conservazione e così anche tutta la cultura che lo sottende: impossibile, pensavo, da accostare al mio linguaggio, che mantenendosi comunque in un ambito di musica “colta”, si proietta nel presente e nella ricerca di sonorità nuove ed inedite. Utilizzando le tecniche elettroacustiche e le capacità di elaborazione del computer, la mia musica tende ad allontanarsi dalla musica classica occidentale, per quanto ricca ed interessante, prendendo piuttosto come modello di riferimento la transculturalità: un allargamento dell’orizzonte del linguaggio che va dall’avanguardia più estrema al canto gregoriano, dal free jazz alla musica persiana e indocinese.
Dunque il lavoro teatrale al quale mi veniva proposto di collaborare era “l’Isola di Alcina”, sottotitolo “Concerto per corno e voce romagnola”, con il testo scritto Nevio Spadoni e l’allestimento del Teatro delle Albe, vale a dire la regia di Marco Martinelli, le luci di Vincent Longuemare e un’attrice di esperienza del dialetto come Ermanna Montanari.
Fin dal primo incontro con Marco Martinelli ed Ermanna Montanari (ideatori dello spettacolo) e con Nevio Spadoni, sollecitato da Franco Masotti direttore artistico del Ravenna Festival, ho percepito che le mie riserve erano del tutto fuori luogo, e la direzione che il lavoro ha preso fin dal primo momento è stata molto stimolante e molto vicina al mio modo di concepire la musica e l’opera musicale contemporanea.
L’idea di partenza era quella di costruire l’opera come una sintesi tra poesia, teatro e musica, dove ognuna delle singole componenti, pur mantenendo tutto valore insito nel proprio linguaggio, si integrasse nelle altre in completa sinergia. Un modo di lavorare che mi è molto congeniale, e del quale ho esperienza fin dalla fine degli anni ’70.
L’Isola di Alcina è un monologo liberamente ispirato all’Orlando Furioso dell’Ariosto. Storia d’incanti e di magie operati da Alcina, maga ariostesca sdoppiata in due sorelle, travolte con esiti diversi dallo stesso amore per un forestiero giunto nel loro paese. L’isola diviene luogo della campagna romagnola, dove le due sorelle sono custodi di un canile in cui (forse) sono rinchiusi gli ex amanti trasformati in cani.

La struttura del testo, scritto in un dialetto che si fa lingua aspra e dura, non è quella del racconto, che viene invece brevemente esposto prima della rappresentazione in modo da dare agli spettatori gli elementi narrativi necessari alla comprensione del contesto. Si tratta piuttosto di un’alternanza di invettive, maledizioni, canto amoroso, che la protagonista (Ermanna Montanari) rivolge alla sorella, impazzita fino a perdere l’uso della parola.
Come in molta letteratura contemporanea quindi, non una trama che si svolge dall’inizio alla fine secondo una sequenza narrativa, ma una serie di monologhi che delineano gradualmente lo stato interiore dei personaggi rivelando sempre più, in un crescendo di emozionalità, la loro statica drammaticità.
Questo tipo di struttura sembra adattarsi perfettamente alla mia musica, mai basata su strutture predefinite e sullo sviluppo tematico e formale, ma anch’essa concepita come un susseguirsi di tensioni e distensioni emotive create unicamente dalla natura intrinseca degli oggetti sonori.
Il rapporto tra il testo di Nevio Spadoni e i suoni con cui è stata composta la musica per l’Isola di Alcina si è sviluppato partendo dalle caratteristiche fonetiche del testo recitato, cercando di trarre dai fonemi della voce stessa gli elementi costitutivi della struttura musicale .
Superando così il pregiudizio che separa la musica dalla recitazione, abbiamo a disposizione come materiale musicale una gamma ampissima di suoni che va dalle vocali più aperte (i suoni chiaramente intonabili, costituenti la materia prima del canto), alle consonanti (suoni che hanno transienti di attacco molto corti e che hanno una grande importanza come elementi ritmici come le “T”, le “P”, le “C”, oppure suoni come la “R” o la “S” che si possono tenere a lungo ed hanno le caratteristiche acustiche del rumore), fino a quelle emissioni che di solito sono considerate suoni involontari o insignificanti (mentre sono invece una componente fondamentale dell’espressione) come ad esempio le incertezze di pronuncia, i soffi e i respiri che separano le frasi.
L’inglobamento della voce recitante nel linguaggio musicale non è certo una novità. Fin dall’inizio del secolo scorso le idee della musica espressionista

e delle avanguardie storiche in genere, fra le quali anche il futurismo italiano, hanno di fatto reso obsoleto il bel canto e la musica operistica, poiché questi non rispondevano più alle necessità espressive dei musicisti in un’epoca votata al sovvertimento dei valori tradizionali. La ricerca di nuove e più efficaci forme di espressione ha così modificato per sempre il rapporto tra musica e vocalità. Un esempio, non certamente unico ma fra i più noti della letteratura musicale, è il “Pierrot Lunaire” di Arnold Schoemberg, scritto nel 1912 su poesie di Albert Giraud per soprano e gruppo da camera. Nel “Pierrot Lunaire” Schoemberg utilizza la tecnica chiamata “Sprechstimme”, dove la recitazione è considerata vero e proprio elemento musicale al pari del canto. In partitura sono scritte sia le altezze che la ritmica del testo e le note di espressione per la recitazione. Onde evitare che le vocali prevalgano sul resto, il cantante non intona chiaramente le note, ma si appoggia soltanto brevemente alle altezze scritte. Il risultato è una sintesi tra canto e recitativo che da alla composizione un carattere espressivo meno lirico ma molto più intenso.
Nell’Isola di Alcina il concetto dello Sprechstimme è molto più radicalizzato. Non ci sono più note da cantare, e la parte musicale vocale è costituita dalle sonorità del dialetto romagnolo, che Ermanna Montanari modula in un’infinita gamma di sfumature espressive.
“Mi accorgo di interpretare una partitura”. “Per gli attori e per il pubblico si tratta di entrare dentro le note”. Così parla Ermanna Montanari dell’Isola di Alcina, lavoro di cui è protagonista assoluta.
Un’altra tecnica che ho sempre utilizzato nella mia musica è l’amplificazione. La voce amplificata (ovviamente con dispositivi di alta qualità tecnologica e con un’attenta regia del suono) rivela un mondo sonoro inesplorato perché con essa è possibile portare a livello percepibile ogni più piccola sottigliezza della vocalità. Anche per questo il canto lirico è oggi superato: non c’è più bisogno di urlare per farsi sentire, come facevano (e spesso fanno ancora) i cantanti d’opera o gli attori. Oggi si può rendere percepibile anche il più flebile respiro, ed anzi amplificarlo fino a renderlo assordante. E poi senza più il problema di tenere costantemente alto il volume della voce, un recitante ha a disposizione una gamma dinamica più ampia e può ottenere una maggior varietà espressiva.
Grazie al testo di Nevio Spadoni e all’interpretazione di Ermanna Montanari, con il procedere del lavoro sull’Isola di Alcina mi sono sempre più reso conto di come il dialetto romagnolo sia una lingua estremamente ricca dal punto di vista fonetico (molto più della lingua italiana) e di quale potenza espressiva vi sia in essa contenuta; una fonte di variazioni sonore che difficilmente si può trovare in altre lingue e che sono una fonte immensa di ispirazione per un musicista.
Un esempio di sfumature timbriche musicalmente interessanti, tra i tanti possibili, si può vedere in un frammento del “Sogno e invettiva contro la sorella” (“A sera tota impiruléda/ che e’ curdoun de’ bligval/ u m’avreb strangulè/ s’u n’fos sté par cla dòna / ch’ la l’à sguplè”) Qui c’è una serie di “e” (impiruleda, strangulè, sté e sguplè) molto caratteristiche. Nella pronuncia dal dialetto delle Ville Unite (Spadoni è di San Pietro in Vincoli ed Ermanna Montanari è di Campiano in provincia di Ravenna), come in molte altre varietà locali di dialetto romagnolo, queste “e” vanno progressivamente verso la “a”, senza però mai raggiungerla, in un glissato leggero ma significativo. Un cambiamento timbrico che può assumere molte interessanti variazioni e serve per rinforzare ulteriormente l’espressività delle frasi. Di esempi come questo se ne potrebbero citare tanti altri; tutto il testo di Nevio Spadoni è un mirabolante gioco timbrico di suoni ora aspri, ora dolci, ma sempre fortemente caratterizzanti.
Una prova della qualità timbrica di questo testo, che va oltre il suo significato letterario, è il successo ottenuto dalle rappresentazioni dello spettacolo in regioni al di fuori della Romagna, sia in Italia che all’estero . Pur non essendo mai stato tradotto il testo, anche il pubblico che non comprende il dialetto resta affascinato dalla fortissima espressività della voce, e nonostante Ermanna Montanari sia considerata esclusivamente un’attrice nell’ambiente teatrale, riceve molte volte complimenti da musicisti che la considerano una grande cantante. “I monologhi dell’Alcina, i suoi assoli, sono di evidente scrittura musicale, al passo con il parlato melodico e ritmico che è la realtà della vocalità musicale dopo la fine del canto. Perché il canto è morto nel teatro musicale interessante, era tempo che morisse, non lo si sopportava più. Qui si vede il genio di Ermanna Montanari. Attrice e vocalista, sarà bene che le Enciclopedie della musica aggiungano il suo nome a quelli di Cathy Berberian e Gabriella Bartolomei.
Come detto in precedenza, anche per la parte strumentale della musica avevo deciso di prendere spunto dalle caratteristiche fonetiche della voce. E così ho scelto i suoni di uno strumento, il corno, che come tutti gli strumenti a fiato non è altro che una macchina per filtrare ed amplificare la voce e il soffio. Nel 1999 avevo realizzato “Respiri”, per corno preparato e suoni di corno su nastro magnetico , sperimentando nuove sonorità dello strumento, compreso un sistema di ampliamento del canneggio, con il cornista Michele Fait allo studio Agon di Milano. Questo lavoro è la base dalla quale sono partito anche per realizzare la musica dell’Isola di Alcina. Anche qui tutti i suoni che si ascoltano, al di fuori della voce, sono suoni di corno (tranne che nella parte de “l’Amore di Alcina”).

Naturalmente il mio metodo di composizione presuppone sempre un lavoro creativo sulla trasformazione timbrica dei suoni, e quindi il suono del corno è stato elaborato elettronicamente al computer (l’opera d’arte è imprescindibile dalla scienza e dalla tecnica, come ci hanno insegnato i più grandi artisti del passato). I suoni di corno sono stati rielaborati sia dal punto di vista timbrico che dal punto di vista melodico e ritmico, ottenendo sonorità non sempre riconducibili allo strumento, ma cercando spesso di esaltare le componenti della vocalità del cornista ottenendo suoni che potessero rappresentare l’espansione della voce recitante di Ermanna. Così sono stati messi in risalto soprattutto i rumori: transienti d’attacco, respiri e i soffi, che dialogano ritmicamente con la voce di Alcina o si fondono con essa formando un unico insieme sonoro.

L’Isola di Alcina si divide in nove parti, ognuna delle quali presenta un diverso rapporto tra testo e musica.
La prima di queste è un preludio, esclusivamente strumentale, che serve da introduzione alla scena ed al clima oscuro e intenso che caratterizza tutto lo spettacolo. Il corno suona l’unica parte veramente melodica di tutto il lavoro; che è costituita unicamente di tre note: quelle al limite della sua estensione acuta, difficilissime da suonare, ma con un forte carattere evocativo. (“L’inizio è sfolgorante e ricco di autentico pathos: un corno francese che evoca il fantasma vivissimo, appassionato e un po’ minaccioso di John Coltrane lancia grida che subito vengono sminuzzate e arricchite con suoni percussivi di materico vitalismo. Suoni artificiali, ricavati per campionamento ed elaborazioni al computer da una serie di suoni del corno francese, eppure suonano come se fossero altro”. Qui del suono è presentata anche la dimensione spaziale; le note acute ruotano intorno al pubblico avvolgendolo completamente in una prospettiva tridimensionale, creata da un complesso sistema di spazializzazione controllato da computer.
La seconda parte “Prologo in ottava” introduce i versi dell’Alcina dell’Ariosto; Alcina/Ermanna evoca il passato, il padre e l’inizio del lavoro al canile. Un suono tenuto, in sottofondo, mantiene la tensione emotiva che gradualmente continua a crescere, sovrastando nel finale la voce e tornando a riempire completamente lo spazio.
La terza parte (Sogno e invettiva contro la sorella) contiene in sé tutta la varietà timbrica ed espressiva del dialetto romagnolo. E’ la parte più complessa e virtuosistica per la voce, che si muove in un’infinità di inflessioni e di caratteri diversi. Il suono del corno, trasformato e triturato fino a diventare puro rumore, accompagna il testo con interventi minimi, come fossero scorie degenerate della parola, e sottolinea l’asprezza dell’atmosfera esplodendo talvolta in cesure spiazzanti e perentorie.
La quarta e la quinta parte (Lo straniero e l’Invettiva contro gli uomini) sono musicalmente molto diverse tra loro. Nella prima le frasi del testo sono interrotte e contrappuntate dai respiri del cornista, mentre la seconda ha un inizio dai toni scuri e allo stesso tempo lirici, con il corno che tiene un pedale molto grave, sgranato e meditativo, ricco internamente di variazioni microtonali.
La sesta parte (Risate nel canile) dal punto di vista musicale è la riesposizione dell’atmosfera iniziale, con il suo tema melodico e spaziale, a cui si aggiungono i latrati dei cani/cavalieri provenienti dal canile sottostante la scena, per la prima volta emerso dall’ombra in cui è relegato. Nella parte successiva Alcina pronuncia la sua Invettiva contro i cani. Inizia quasi in tono scherzoso per diventare sempre più sarcastica e terribile. Il corno partecipa a questa trasformazione partendo da un suono tenuto acuto fino ad un magma sonoro molto denso e potente.
L’amore di Alcina è un cambiamento totale di atmosfera. Qui la caustica maga/sorella si trasforma completamente, e in un’atmosfera di sdilinquimento trasognato rivelerà che lo straniero, di nascosto dalla sorella, è stato suo amante, ed anche lei è stata da lui abbandonata. Anche l’ambiente sonoro qui cambia totalmente, e ai suoni del corno si sostituiscono accordi, tenuti e lentissimi, di grandi gong fatti risuonare da corde vibranti. La particolare tecnica di eccitazione e di amplificazione degli strumenti esalta le lente e delicatissime variazioni inarmoniche che gli accordi formano e disfano in continuazione. Soltanto nella parte centrale, accompagnando l’unico momento di enfasi del testo, la spazio si riempie del suono, lacerante e potente, tipico dei grandi gong.
Nella parte conclusiva (Finale dell’instupidimento) Alcina urla la disperata impotenza del suo stato, con una drammatica e ossessiva ripetizione: “A m’so insmida”. La parte musicale è un contrappunto infernale di tante linee ritmiche asincrone, ognuna costituita da una sola nota staccata, in una sovrapposizione di accelerati e rallentati che raggiunge il parossismo. A questi ritmi si sovrappongo suoni sforzati, in un estremo crescendo di intensità e di densità che si sovrappone alla voce.
La voce di Alcina sovrasta il pandemonio sonoro con la sua potente asprezza mentre la scena rimane congelata in una disperata staticità. Alla fine, terminato il bailamme ritmico, dalla voce affranta e ridotta ad un debolissimo sussurro emerge ancora un ultimo sussulto che si espande in un densissimo e definitivo grido del corno. Il magma sonoro invade, come una lunga onda, tutto lo spazio intorno, per poi arretrare e ritornare una seconda volta ancora più penetrante. L’onda emotiva delle due sorelle travolge ed annulla ogni cosa.

Luigi Ceccarelli Cesenatico, agosto 2002