Ceccarelli, L. 2009 “Una domanda ai Compositori” in Musica / Tecnologia (Music/Technology), rivista della Fondazione Ezio Franceschini: 4, 2010 – Firenze University Press –
ISSN 1974-0050
ID 2492639
DOI: 10.1400/184321
DOMANDA
La tecnologia diviene oggi sempre più accessibile e versatile e rischia proprio per questa sua evoluzione continua di far perdere di vista taluni obiettivi: primo tra tutti, quello di mantenere ‘sostanziale’ il suo utilizzo all’interno del processo compositivo, senza cadere in un uso superficiale o ‘effettistico’ delle potenzialità che entrano in gioco.
Riferendosi alla musica elettroacustica, tali problemi furono peraltro già delineati negli anni Settanta – e successivamente anche negli anni Ottanta e Novanta – sia da un punto di vista critico come quello di Pierre Boulez:
“i mezzi elettronici forniscono delle maniere di agire, di manipolare, che, nella superficialità di certi procedimenti, conducono a delle conseguenze raramente spettacolari, ma quasi sempre circoscritte, dove la flessibilità e la duttilità sono escluse. E lì, vorrei sottolineare le conseguenze che si verificano se, da una sorta di fascinazione nei confronti l’atto di manipolazione, ci si lascia condurre al trattamento superficiale, lasciando da parte la riflessione sui mezzi e sui metodi. In questo caso, malgrado una certa abilità di manovra, il risultato in quanto composizione darà prova di amatorialismo e, alla fine, di incompetenza.
Per questo mi sembra che dopo anni che lo si sfiora, questo dominio è realmente poco progredito a fa nascere spesso un sentimento di insoddisfazione, incompiutezza, di netta inferiorità in rapporto al pensiero musicale che si esprime nel dominio strumentale.
Questo spiega essenzialmente i fallimenti ripetuti delle produzioni basate esclusivamente sull’agglutinazione (incollamento), dal quale il concetto di scrittura resta fondamentalmente assente. Certo, la tecnica era forzatamente sommaria, ma “il fare” lo era ancora di più (…). La tecnologia di oggi lascia ancora il posto al bricolage (…)”.
sia dal punto di vista di un compositore più vicino al mondo della musica elettroacustica come Jean-Claude Risset:
“La musica concreta (…) fornisce (…) una varietà immensa di suoni naturali complessi dalle forme diverse e dall’identità forte – ma le modalità di trasformazione di questi suoni restano rudimentali in confronto alla loro ricchezza, così di rischia di privilegiare gli effetti sonori e l’estetica del collage. La musica elettronica permette in quanto tale di
stabilire delle relazioni più precise tra i suoni – ma questi suoni elettronici molto semplici, spesso noiosi, dall’identità insignificante, spesso non possono essere arricchiti che da manipolazioni che in larga misura fanno perdere al compositore il controllo della struttura. Queste due tecniche possono certamente essere combinate, ma il dilemma tra ricchezza di suono e raffinamento del controllo risiede …..”
Diversi sono i centri di ricerca e di produzione aperti durante quegli anni in tutto il mondo – nel 1977 lo stesso Pierre Boulez fonda l’IRCAM – con l’intento specifico di affrontare i problemi posti dalle tecnologie in ambito musicale.
Tutto ciò – storicamente esaurito l’impatto innovativo degli inizi – pone diversi interrogativi sostanziali sugli sviluppi futuri della musica elettroacustica e in generale sul contributo delle tecnologie alla creazione musicale e di quale natura esso possa essere.
RISPOSTA
“Per un compositore essere in anticipo sui tempi è come essere in ritardo. Si è comunque fuori tempo..”.(Fernando Mencherini 1995)
La nascita della musica elettroacustica è la storia di una rivoluzione culturale. All’inizio del XX secolo, erano i musicisti legati ai grandi movimenti culturali di rinnovamento, alle avanguardie artistiche – in Italia per esempio i futuristi – a manifestare il bisogno di nuovi strumenti musicali consoni al proprio tempo.
Prima della nuova tecnologia è venuta la necessità di fare una musica nuova, una musica che producesse una rottura netta con la musica accademica e con la società che la rappresentava. Ogni nuovo pensiero per imporsi deve necessariamente rinnegare il vecchio e per fare questo occorrevano strumenti completamente diversi da quelli creati in precedenza. Soltanto con l’invenzione degli strumenti elettronici questo processo, alla fine, è stato portato a compimento.
Edgar Varèse, ben prima degli anni ’50 aveva ipotizzato che l’avvento di nuovi strumenti creati dalla tecnologia elettronica avrebbe portato la composizione musicale a superare gli strumenti tradizionali, oramai diventati troppo limitanti. La musica prodotta dalla macchina elettronica sarebbe transitata direttamente dall’immaginazione dell’autore alla percezione dell’ascoltatore senza compromessi e limiti.
La nascita della musica concreta alla fine degli anni ’50 e della musica elettronica aveva creato una grande aspettativa non solo tra i musicisti, ma in tutta la società: finalmente sarebbe arrivato un nuovo modo di creare e di ascoltare. Gli anni ’60 e ’70, e forse anche ’80, sono passati, almeno nell’ambito della musica più avanzata, nella convinzione che si stava costruendo un nuovo linguaggio musicale in cui tutte le culture si sarebbero riconosciute grazie ad un mondo sonoro più ricco e complesso.
Oggi molte di quelle aspettative si sono rivelate illusorie, ma se ci guardiamo indietro ci rendiamo conto che il mondo della musica è enormemente cambiato, e questo lo si deve quasi esclusivamente alla tecnologia. La civiltà digitale ha pervaso tutta la musica, moltiplicandone la sua funzione artistica e sociale.
Il contributo della tecnologia a questo processo è però quasi esclusivamente legato alla diffusione della musica e alla produzione di musica di consumo. Tutt’altro discorso vale per la creazione artistica.
Lasciando per un momento da parte i fenomeni commerciali e la musica giovanile, che incentiva fortemente l’uso della tecnologia digitale, e considerando soltanto la musica elettroacustica che deriva dalle esperienze della seconda metà del ‘900 (usiamo il termina musica elettroacustica tanto per non confonderla conl’inflazionato temine
“musica elettronica”), dobbiamo rilevare che questa ha mantenuto sempre un suo stato di musica per una comunità molto ristretta, anche se distribuita internazionalmente, e che anzi col tempo la sua cerchia sembra restringersi sempre di più.
Se da una parte il grande pubblico ha sempre considerato la musica elettronica come un genere troppo difficile – e questo non è certo un problema, essendo a priori la musica elettroacustica destinata ad una comunità di specialisti – è innegabile che anche le istituzioni culturali l’hanno sempre più messa da parte e soprattutto il mondo della musica classica e contemporanea istituzionale, pur decretandole sempre un formale rispetto, l’ha di fatto sempre più emarginata.
Questo accade in modo particolarmente evidente in Italia, dove, dopo l’esperienza del Laboratorio di Fonologia della RAI, la musica elettroacustica è stata totalmente cancellata dalle stagioni concertistiche e dalle programmazioni radiofoniche. Al massimo possiamo trovarne qualche caso di impiego nelle opere dei compositori strumentali più accreditati che in qualche modo cercano di ravvivare le loro sonorità. La musica elettroacustica sembra trovare sempre meno posto proprio in quell’ambiente, in quella cultura, che l’ha resa possibile e all’inizio l’ha incoraggiata.
Rileggendo oggi le parole critiche di Pierre Boulez, anche se in gran parte giustificate, vi traspare chiaramente la posizione di una cultura musicale “colta” e sicura di sé che pretende di mantenere la musica elettroacustica in rapporto di sudditanza. Una posizione che rispecchia una mentalità conservatrice e per di più piuttosto arrogante.
Le osservazioni di Jean Claude Risset sono altrettanto critiche, ma vengono formulate da un compositore militante in tutto e per tutto nella comunità elettroacustica e rilette oggi ci fanno invece capire la lucidità e il coraggio dei musicisti di allora di fronte ad un mezzo ancora troppo rudimentale per essere soddisfacente.
Dopo vent’anni dalla prima pubblicazione di questi scritti molte cose sono cambiate, la tecnologia digitale è progredita talmente che la qualità dei suoni e la complessità dei processi non ha più nulla da invidiare dal punto di vista musicale alla musica strumentale. Per questo ha pervaso talmente tutta la musica che i generi musicali e le relative tecniche sono esplosi ricombinandosi in una miriade di varianti in cui ogni associazione è lecita e contribuisce alla graduale nascita di una nuova idea di musica, più allargata alle diversità della precedente. Oggi non ha più molto senso fare una distinzione di musica strumentale, musica concreta e musica elettronica.
I musicisti oggi si trovano nella necessità di rinnovare completamente le tecniche di composizione perché le tecniche tradizionali come il contrappunto, l’armonia, l’orchestrazione, non sono più parametri sufficienti a costruire una struttura musicale.
Fare musica significa lavorare il suono dalle sue componenti più infinitesimali fino al rapporto con la dimensione visiva. Una quantità di dati impensabile per un compositore del passato, che invece considerava come punto di partenza timbri predefiniti, con una struttura predeterminata, oppure, nel passato più recente, lavorava con semplici forme d’onda dall’andamento piuttosto rigido.
Comunque ciò non toglie che la tecnologia digitale, nonostante le sue potenzialità, in molti casi non sia ancora in grado di eguagliare la capacità interpretativa raggiunta in vari secoli dalla musica strumentale. La questione della duttilità del suono e dell’esecuzione presentano ancora modalità tutto sommato primitive rispetto alla musica tradizionale e alle tecniche strumentali contemporanee.
Il limite della tecnologia non è tanto nella costruzione di macchine che generano suoni – abbiamo strumenti efficienti per questo. Il vero problema, come in molti altri settori tecnologici, sta diventando la gestione dei dati, l’interfaccia uomo-macchina.
Se nella musica strumentale il limite è il gesto fisico e le proprietà fisico-meccaniche dello strumento, nella macchina il limite è spesso il software. I software di oggi ci sembrano troppo lenti per il pensiero musicale, l’auspicata corrispondenza pensiero-suono si perde negli innumerevoli dettagli tecnici della messa a punto dei sistemi, nella gestione dell’enorme quantità di dati che devono essere trattati per generare un’opera musicale.
Un altro campo in cui la tecnologia elettroacustica non ha fatto sostanziali progressi è la questione della diffusione del suono nello spazio. Fin dagli inizi il suono prodotto da circuiti elettrici resta legato ancora al vecchio ed insuperato altoparlante. Lo spazio stereofonico è spesso considerato da molti musicisti elettroacustici un dato acquisito, uno spazio virtuale uguale in tutto e per tutto allo spazio reale. Ma questo è molto lontano dall’essere vero. Lo spazio creato da due altoparlanti non è che un pallido surrogato di uno spazio sonoro reale, in cui i singoli suoni hanno un punto di provenienza fisica reale. Sistemi di diffusione a quattro, otto, sedici altoparlanti rendono una spazialità migliore, ma mai abbastanza realistica. E a tutt’oggi una soluzione alternativa non è stata mai neanche ipotizzata. Certo la difficoltà è che la diffusione del suono avviene nell’aria, una dimensione dove valgono le leggi della meccanica e non dell’elettronica.
Il problema dello spazio va molto oltre però la dimensione musicale e coinvolge certamente la percezione nella sua totalità comprendendo tutto ciò che ci circonda, inclusa la relazione con gli altri individui. Un esempio che chiarisce questo punto viene dalla radio. Verrebbe da pensare che la musica elettroacustica, per il fatto di non avere la necessità di una componente visiva, sia la musica ideale per la radio. Invece questa musica è considerata dai radiofonici non adatta alla trasmissione, perché mancando sia alla radio che alla musica l’informazione visiva l’ascoltatore non ha nessun appiglio per ricostruire una sensazione percettiva coinvolgente. E’ per questo che alla radio sono preferibilmente trasmessi concerti con riprese dal vivo: soltanto il percepire lontanamente il rumore del pubblico o sentire l’intervista “a caldo” del presentatore rende più emozionante l’ascolto solitario a casa propria.
Per quel che riguarda invece i concerti in auditori abbiamo tutti esperienza del fatto che ascoltare musica in una sala con il palcoscenico vuoto e gli altoparlanti a fare da totem non è un’esperienza piacevole ed esaltante. Tanto vale allora ascoltare al buio, come si faceva al festival “Rien à voir” (“Niente da vedere”) di Montrèal. Un’esperienza intensa per un paio di concerti, alla lunga però troppo limitativa.
La musica, tutta la musica, ha sempre implicato una necessità di condivisione ed una
Ma la musica elettroacustica non ha trovato ancora un suo “luogo” fisico soddisfacente, uno spazio dove celebrare il rito collettivo dell’ascolto. E’ proprio questo che le nuove generazioni stanno cercando, anche se a volte a discapito della qualità. I tentativi di mettere insieme eventi sonori e visivi, di costruire eventi emotivamente coinvolgenti passano inevitabilmente attraverso l’uso di tecnologie digitali audio e video sempre più sofisticate. Molto spesso troviamo in questi eventi una mancanza di rigore disarmante e alla fine rimaniamo delusi per la banalità del risultato, ma questa strada è senza ritorno.
partecipazione emotiva, perche la musica non mette in relazione solo i suoni con se stessi, li mette in relazione con la nostra conoscenza del mondo.
Un’ulteriore osservazione sui testi di Boulez e Risset è che a ben guardare, più che alla tecnologia la loro critica è rivolta alle persone che la usano.
Da tanti anni ormai, i termini “ricerca” e “sperimentazione” sono usati e abusati anche in campo artistico. La musica elettroacustica è una disciplina che necessariamente fa uso di nuove tecnologie, di processi e di principi presi dal mondo scientifico e quindi anche di terminologie. Qualche volta c’è il rischio di creare una confusione tremenda, e può capitare che la conoscenza scientifica venga scambiata per conoscenza artistica.
Questo succede molto facilmente quando, invece di mantenere un rapporto dialettico con il mondo esterno, ci si chiude nel proprio laboratorio.
Fare sperimentazioni acustiche, ricercare nuove sonorità, creare algoritmi che generano strutture sonore è una cosa molto importante, e di fatto è questo lavoro preparatorio che ogni musicista dovrebbe fare nel suo laboratorio con il rigore scientifico del ricercatore. Ma tutte queste cose non sono necessariamente musica. Se la ricerca scientifica deve essere –per definizione – giustificata rigorosamente ad ogni passo, questo non vale per la musica. Per fare musica occorre aggiungere un livello di complessità in più, di “tipo logico” superiore. Il significato di una composizione non sta nel rigore della logica, piuttosto sta nell’inganno della logica, nella contraddizione, nell’andare oltre le regole della scienza, nel raggiungere un obbiettivo senza dover attraversare razionalmente tutti i passaggi.
Credo che sia la mancanza di un rigore artistico che lamentano Boulez e Risset. Quando lo sfoggio di tecnologia serve a nascondere l’assenza dell’idea musicale.
……Quest’opera non può essere considerata sperimentale. Il perseguimento del piacere, che è il motivo che mi guida, non è una scienza. Ovvero, come ho già detto, è il desiderio che mi stimola, non la necessità….. (Man Ray, 1945)
Luigi Ceccarelli, Roma 31-12 – 2009