Su questa trama (per non dire l’Otello) (2001)
for narrator and ensemble
dramaturgy and libretto by Vittorio Sermonti
Instrumentation: Hr. Perc. (Mar. T.tam T.tom G.C. Temple blocks Flexatone, Vibraslap, Rombo, P.tti, Trgl., Tmb.basco)
String quintet
Duration: 60′ ca.
Commission Società dei Concerti “B.Barattelli”
First performance: L’Aquila, 11/11/2001, Auditorium Nino Carloni, “Riraccontare Verdi”
Interpreters: Vittorio Sermonti narrator, Freon ensemble, conductor Stefano Cardi
Note di sala
“Dalla scrittura al teatro”
Intervista a Mauro Cardi di Alessandro Mastropietro
(dal programma di sala del concerto dell’11.11.2001, nell’ambito della 55a Stagione della Società Aquilana dei Concerti “B.Barattelli”, ciclo “Ri-raccontare Verdi”)
Mastropietro: La traiettoria compositiva di Mauro Cardi rende l’autore in questione, a mio avviso, sensibilissimo al confronto con la scrittura… se poi essa è quella magistrale, quasi “originaria” – per dirla con Derrida – dell’Otello, nel senso che essa vale tutta intera ad articolare suono e drammaturgia, penso che si tratti qui quasi di una sfida… Ti chiedo anzitutto se quest’ultima, magari, non sia una parola grossa, e forse può essere ridimensionata con il concetto di gioco che, pure, Ti è ugualmente vicino.
Cardi: Diciamo pure che come compositore la scrittura, con le sue problematiche e la sua fascinazione fatale, mi ha ossessionato, almeno fino a pochi anni fa, orientando la mia “ricerca” in modo quasi maniacale. Negli ultimi tempi, sotto spinte diverse, tra le quali il ruolo decisivo giocato dalla “scoperta” degli orizzonti timbrici e di pensiero aperti dalle nuove tecnologie, il campo dell’indagine si è notevolmente allargato, teatro incluso. Venendo al “ri-raccontare l’Otello” la sfida implicava la disponibilità a ripensare Verdi (e Verdi-Boito attraverso Sermonti) senza preconcetti, confrontandosi con quello che l’Otello rappresenta nella storia del teatro musicale (e nell’immaginario collettivo). Quando la scrittura si cimenta con materiali di provenienza storica può produrre operazioni anche artificiose ed intellettualistiche, ma quando si tocca il teatro il gioco della scrittura deve misurarsi con una tempistica che non ammette incertezze. E il caso dell’Otello è quello di un plot che combina con rara efficacia l’essenzialità della vicenda con una tessitura finissima…
M.: A proposito di teatro: è vero che le tue esperienze di teatro musicale non sono numerose, ma sicuramente lo sono quelle di un teatro dell’ascolto (i radiodrammi) e quelle, riprendendo una definizione di Donatoni, di un teatro del comporre, che nelle tue ultime cose mi sembra si faccia veramente vieppiù drammatico, incisivo… Ciò posto, come hai regolato, nello specifico, il rapporto col preesistente verdiano e col testo di Sermonti? L’hai piegato verso, appunto, una tua nuova drammaturgia…?
C.: Come accadeva in passato a quei compositori, penso a Monteverdi, certo non a Verdi, che solo occasionalmente e neanche troppo spesso si dedicavano al teatro, queste occasioni rappresentano generalmente una sorta di “summa” delle ricerche portate avanti altrove, in contesti più raccolti; in questa stessa situazione mi sono trovato anch’io: ripensare, sfruttandone i risultati migliori, a tanti lavori cameristici prodotti negli ultimi anni indirizzando la scrittura verso una teatralità lì sotterranea ma fortemente presente, qui più esplicita, pur nell’ambito di una forma, quella del melologo, che rimane teatrale sui generis. Troppo nota la trama dell’Otello perché Sermonti si soffermi più di tanto nel riraccontarla; piuttosto analizza le tre figure chiave dell’opera, alla ricerca di indizi che portino ad interpretazioni inedite. Il testo, come la musica, scorrazza così lungo l’opera, percorrendola in lungo e in largo alla ricerca di temi, psicologie, retroscena, antecedenti, sovrapponendosi spesso in questi percorsi, ma producendo anche stimolanti collisioni. La gran parte dei temi verdiani è citata nel mio lavoro: alcuni di questi temi appaiono entro le trame di un discorso musicale a cui forniscono materiale e da cui ricevono in cambio “coperture”, altri invece irrompono con la risolutezza icastica di quei personaggi che non ammettono censure o chiose (e qui mi riferisco al Finale, dove sono presenti due tra i più celebri temi dell’opera: E tu m’amavi per le mie sventure e il più wagneriano Verdi del “tema del bacio”); gli uni e gli altri vengono assorbiti in un discorso musicale che rimane personale, non assumono valenze linguistiche, aspirano semmai ad una teatralizzazione del linguaggio. La parte del corno, strumento che nel mio lavoro assume un ruolo protagonistico nella punteggiatura formale dell’opera, esemplifica invece un altro tipo di operazione: una ricerca calata all’interno della scrittura di Verdi, tra le pieghe della partitura – nella “pancia” dell’orchestra, verrebbe da dire – di quegli elementi oscuri eppure fortemente costitutivi di uno stile, di quelle cellule che, una volta estratte, serviranno a ricostruire nuovi organismi, autonomi e di senso diverso, seppur geneticamente prossimi ai loro antecedenti.