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“Mauro Cardi: Child”, intervista di Francesco Denini (SuonoSonda)

Giu , 1
“Mauro Cardi: Child”, intervista di Francesco Denini (SuonoSonda)

“Mauro Cardi: Child
Intervista a Mauro Cardi di Francesco Denini
per “SuonoSonda: rivista di ricerca musicale”
N.3 – Giugno 2004


F.D. Child è un brano per clarinetto basso del novembre del 2003 che porta una dedica particolare.
M.C. 
È dedicato al mio piccolo, di un anno e mezzo.
F.D. Una dedica che, nella sua eventuale connessione con il titolo, potrebbe anche far pensare a campi d’esperienza non estranei a una qualche ‘lente auditiva’ implicata nella forme dinamiche dei suoni …o è una mia troppo libera associazione, un’inchiesta troppo insistente?
M.C. Da quando è nato mio figlio tutto il mio rapporto col tempo si è ridefinito. Cercare di adeguarsi ai suoi tempi, ripensare le mie giornate, toccare con mano la velocità del tempo… Mi diceva un mio amico compositore: ‘vedrai, ora che sei diventato padre farai in pochi mesi l’esperienza di tutto l’evoluzionismo umano’. La lente del tempo, appunto.
F.D. Bene, siamo in tema, allora …e però entriamo così naturalmente in quelle zone della formatività in cui esperienze emozionali e sottosuoli dell’intenzione s’intrecciano con la forza spontanea, concreta e quotidiana della vita. Qualcosa, di cui non è poi così facile parlare…

M.C. Non lo è, infatti. E non lo è per una strana forma di pudore tutta maschile… ma, aggiungo, non lo è anche per scelta deliberata. Ho sempre pensato che quando si parla della propria musica si deve lasciare alle spalle l’emotività, i sentimenti, il vissuto ecc. … perché ineriscono a sfere assai diverse e perché possono risultare fuorvianti. Non amo indirizzare l’ascolto inibendo di conseguenza una libera ‘navigazione’ personale dentro l’opera. In altre parole, ho antipatia per quei programmi di sala che ‘spiegano’ un’opera illustrandone i contenuti, col risultato di condurre per mano l’ascoltatore nella ricerca di quello che (parola dell’autore) presume ci sia da vedere. Se così indirizzata l’esperienza dell’ascolto si riduce a qualcosa di simile a quanto accade nel campo delle arti figurative, quando, entrando in una cattedrale o in un museo per la prima volta, con una guida in mano, passiamo il tempo a trovare conferme più che fare scoperte. Tutto ciò premesso, però – chissà forse proprio in questo il bambino mi ha cambiato… insegnandomi la sua naturalezza spudorata dei sentimenti… – propongo di continuare ad esplorare lungo questo margine sottile tra l’esistenziale e l’estetico.

F.D. Nulla è più naturale che sentire anche solo presso la semplice immagine di un bambino l’aprirsi di potenzialità energetiche improvvise, profondissime: forse è qualcosa di simile che la musica del Novecento ha inseguito in termini estetici . Ma è altresì possibile che si profili oggi anche un’altra nuova sfida, forse anche in ragione d’una spinta del pensare femminista e democratico, una sfida, concernente una qui davvero sottilissima facoltà di vivere tali dimensioni in termini più concretamente quotidiani, e senza perdere però un legame in controluce con l’immenso bagaglio della cultura musicale occidentale? Non è descrivibile anche così questo margine lungo cui Child sembra portarsi? 
M.C. Gli occhi del bambino sono costantemente aperti alla stupefacente scoperta del mondo. Noi che dello stupore abbiamo perso il senso e il valore, abbiamo perso quello sguardo. Lo ritrovo negli occhi di mio figlio, ma ritrovare e rileggere quegli sguardi stupiti è già di per sé un’operazione intellettuale, anche se può essere colma d’affetto. Sento, anche solo a parlarne, che il solco tra l’arte e la vita rimane profondo, incolmabile. Perché quando noi parliamo di arte, quando parliamo di musica, siamo alla ricerca di un senso, di un percorso, di una poetica… un bambino la musica semplicemente la vive. E della musica vive quanto più lo riporta ad esperienze fisiologiche, ne vive quindi il ritmo in primis, al suo stato di natura. Non cerco dunque una sintesi impossibile, come non cerco di riversare l’una cosa nell’altra. Ho sempre creduto, come dice Derrida citando Picon, che “per l’arte moderna, l’opera non è espressione, ma creazione: permette di vedere quello che non è stato visto prima, dà forma invece di rispecchiare”. L’arte rimane un artificio, ma vivere fino in fondo le emozioni implica trasmetterle intatte, comunicarle… condividerle infine.
F.D.
 Ed è qui che mi sembra stia lo specifico (se mi passi un po’ di pesantezza teorica) che pone Child al centro della questione temporale: la forza aoristica d’un microtema come quello di Ennio Morricone si riverbera nel tempo quasi fosse una traccia scritta nella memoria materiale del suono. La scrittura vi si sottopone come accadrebbe all’immagine fulminea d’un child, alla riverberazione d’un istante riconoscibile, d’un riconoscimento istantaneo pur nel differimento (un puer archetipico prossimo a quello di cui si parlava nel nostro I numero con Ercolani e Frisa); qualcosa che sembra travagliare gli ipogei della categoria del ‘nuovo’ ricollegandola a quelle esperienze di Momentform che, da Debussy a Stockhausen e Scelsi, sembrano costituire quasi un’unica secolare inchiesta. La lente del tempo si mostrerebbe qui come il tentativo d’approssimarsi a una forza dionisiaca che è al pari propagazione dell’opera e maschera della sua origine (e dell’origine in generale come ‘ordine delle coesistenze’), ovvero come differenza, differimento del e nel tempo, nel senso che è proprio alla tua citazione derridiana; ma, il tutto ormai in controluce, filtrato come in certe visioni quotidiane di Vermeer attraverso la dismissione d’ogni elezione intellettuale, autonomo e pure in dialettica con la vita, vita stessa compossibile alla vita.
M.C. La complessa teorizzazione la passo, perché filtrata dal filtro vermeeriano. La folgorazione dionisiaca, se perde calore, acquista tuttavia verità, si fa immanente, fino al quotidiano. Penso alla quotidianità della scrittura, che non era proprio la quotidianità di Scelsi, ad esempio. La scrittura come esperienza vissuta, fisicamente, la scrittura come un andare verso. E penso ancora a Derrida che chiosa il Flaubert di: “non si può pensare a scrivere, se non si è seduti”, chiarificando e restituendo in modo esemplare: “la scrittura è fin da principio e per sempre qualche cosa su cui ci si china”.
E la fluidità della scrittura – che non è detto sia necessariamente scorrevolezza – sento che mi appartiene, la fluidità di un tratto in movimento che si alimenta anche e soprattutto di discontinuità, di gesti fuori dalle righe, per fagocitarli dopo averne tratto linfa, per trovare o creare senso partendo dalle immagini fulminee di cui parlavi. Con Deleuze: “Bisogna provare dapprima l’effetto violento di un segno, in modo che il pensiero sia quasi costretto a cercarne il senso”. 

F.D. E quindi, allora, Derrida o Deleuze? Un pensiero in cui la scrittura scopre la sua forza trascendentale rispetto alla phoné o un’ontologia differenziale del sensibile che ha implicato per un’intera area di musicisti un ritorno dalla scrittura al suono (penso a Mureil, Grisey, Levinas, Dufourt) e che sembra riaprire oggi una riconsiderazione di quelle scritture aperte all’estemporaneità che hanno percorso la musica dalla fine degli anni ‘50 sino agli anni ‘70? In questo senso talvolta sospetto non tanto che sia la musica a rincorrere percorsi che la filosofia ha compiuto ‘più propriamente’ presso la scrittura, ma che sia la filosofia ad avere per ora mancato l’appuntamento con i problemi profondi sollevati dalla scrittura musicale. La scrittura musicale sembra comportare tratti comuni alla scrittura verbale in rapporto alla capacità di trascendimento rispetto alla phoné, liberando la musica dai gioghi della memotecnica per fornirle una memoria più storicamente trascendentale e un’articolazione che apra a futuri mondi alternativi, ma la scrittura risulta essere anche il tratto più evidentemente distintivo della cultura occidentale rispetto alle altre culture musicali, non facilmente scindibile da quel fono-logo-centrismo che Derrida coglie al centro delle illusorie presenze della metafisica occidentale. In tale chiasmo, se c’è, come pare,
dove si nasconderebbe l’ombra di Dioniso?
M.C. Il terreno si fa scivoloso, accidentato… eppur sembra percorrere, sotto altre angolazioni, percorsi collaudati, contrapposizioni storicizzate ancorché sempre fatalmente presenti. I compositori citati, non a caso provenienti tutti dallo stesso movimento culturale, sono quanto di più interessante ha saputo esprimere l’ultimo scorcio di Novecento. Ma, se condivido la tua analisi di un percorso che segna un ritorno dalla scrittura al suono, personalmente lo sento incompleto se non diciamo del punto finale a cui perviene, a cui aspira a pervenire: la scrittura del suono. Senza la quale Grisey non sarebbe Grisey, Mureil non sarebbe Mureil… e la proposizione del suono sarebbe relegata a mera contemplazione del suono stesso. In altre parole, l’epifania del suono rimane a mio avviso un oggetto vuoto, pur nella sua bellezza, se privato di una contestualità e astratto da quella dialettica che, nelle diverse forme,ha da sempre caratterizzato la nostra cultura per comunicare, narrare, testimoniare…

F.D. Contestualità, comunicazione e testimonianza si contrapporrebbero così ad ogni pura epifania del suono, riportando l’ altro all’intenzione, l’inconscio alla coscienza, il tirannico/creativo puer aeternus all’archetipo del senex come saggio/sterile Signore del Tempo. Per Freud è l’uccisione del ‘narcisismo primario’ che da spazio alla vita e al desiderio. Sono temi che Bambini nel tempo, la scorsa mostra modenese curata da Sergio Risaliti e Michela Scolaro, ha ritrovato lambiti nella più recente arte visuale (sino al caso milanese dei bambini di Catelan). Lo sfondo mitico di tali suggestioni concorre a una più ampia conciliabilità tra consequenzialità causale e indeterminazione degli elementi materiali o, su altri piani, tra l’esperienza storica e una visione pluralista della Modernità (in un modo che era stato già focalizzato da Manzoni e che si dovrebbe riconoscere al pensiero sulla storia e sulla scrittura di Dufourt). Ma il crinale che si verrebbe a delineare – lo stesso che individuavi tra prima infanzia ed evoluzionismo umano, tra artificio ed emozioni, tra storia e quotidianità, tra immediatezza del suono e trascendentalità storica della scrittura – non sembra rimandare ad una gradazione tra disponibilità all’ascolto fenomenico e partecipazione ai contesti del far musica, penso a qualcosa di parallelo alla scala ordine/disordine proposta da Grisey (ne propongo un modellino nella pagina che segue)? 
M.C. Gradazione: ecco, partiamo da qui, come condizione che renda accettabile un’analisi posta in questi termini; perché di tutti i gradi d’ordine di una scala della percezione nessuno rende conto in sé di un ascolto reale, che vive solo in quella dinamica temporale in cui piani diversi si alternano e intersecano divenendo dialetticamente efficaci laddove, si intende, incontrino un pensiero compositivo organizzato formalmente. Ma tutto ciò è accademia. Da compositore, e vorrei disperatamente parlare solo di quanto conosco con i sensi oltre che con la ragione, da compositore non posso non annotare che gli schemi di Grisey, ancorché interessanti e in buona parte condivisibili, rimangono al di là dell’opera musicale, opere di Grisey comprese. Perché la tabella relativa ai gradi d’ordine del suono nel tempo, che vorrebbe essere oggettiva, collocandosi sul terreno “neutro” dell’oggetto musicale in sé, è appunto relativa al suono e non alla musica; mentre la tabella dei piani d’ascolto si colloca evidentemente al livello “estesico”, quindi oltre l’opera, tra l’altro indagando su di un fenomeno, quello percettivo, soggetto ai mutamenti che la storia, e la geografia, determinano sull’ascolto musicale. L’intuizione di una forma si alimenta di diversi livelli di complessità, in un gioco continuo tra prevedibilità e imprevedibilità, ordine e caos, che il compositore ordisce, e in cui l’ascoltatore viene proiettato. In questo senso direi che tutto è contesto, così come tutto è codice, se siamo all’interno di un pensiero critico che fa un uso strumentale della retorica. In questo senso non c’è grado di intelligibilità che non sia perseguito e programmato (che poi sia raggiunto e soddisfatto… è tutt’altro discorso). Infine solleverei dubbi su eccessive semplificazioni. Infatti, se l’eccesso di struttura può produrre caos sul fronte percettivo quando, fideisticamente, estende sul dominio della forma un operare costruito sul dominio dei numeri, va incontro a fallimenti analoghi chi deduce un metodo compositivo da uno studio sulla percezione. In verità sappiamo ancora molto poco su come funziona il cervello umano, e ancor meno sul fenomeno della percezione musicale. Se la musicoterapia e in generale tutti gli studi sulla percezione e sugli effetti della musica sull’uomo utilizzano metodi rigorosi, l’atto creativo in sé rimane in buona misura avvolto da mistero, anche quando è irrobustito da conoscenze scientifiche. Detto ciò, sono però d’accordo con te nell’individuare l’anello di congiunzione tra l’opposizione immediatezza del suono/trascendentalità della scrittura da un lato e la sua ricaduta sull’ascolto dall’altro in un atto di volontà.
La disponibilità di cui parli è la condizione necessaria perché una qualsiasi forma di comunicazione abbia luogo. E la comunicazione che a noi interessa è dinamica, anche a rischio dell’incoerenza.
Un criterio che va pericolosamente diffondendosi, parallelamente all’avvenuta mercificazione dell’arte, appare quello di giudicare oggi anche la nuova musica sotto il profilo della sua presunta efficacia. Una musica efficace ad accompagnare una sequenza di immagini, a raccontare una storia, a memorizzare un marchio, a indirizzare una scelta, a condizionare, unire, dividere… ma anche trattando di musica “colta” viene sempre più spesso adottato un criterio simile. «Questa musica funziona» può essere un giudizio gratificante che sotto cela un pensiero totalitario di chi presume di individuare in un’opera la sua adesione a un gusto o a una categoria definita e giudicarla di conseguenza. Chi fa ricerca, in senso scientifico, tecnico o anche espressivo, non può essere ricondotto a categorie e gusti condivisi. Né a tabelle di sorta. Viene da chiedermi: nel 1822 la Sonata op.111 “funzionava”?
F.D. Come ridisegneresti allora in questo ambito l’intero rapporto tra opera e tempo?
M.C. Riferendomi a Child, la presenza tematica di citazioni da Morricone
è già un’operazione sul tempo, utilizzando infatti come materiale costruttivo del lavoro frammenti musicali che rimandano ad una memoria collettiva e condivisa. Tanto più risultano riconoscibili, tanto meglio le citazioni supportano uno sviluppo musicale che sposta l’attenzione sulla loro trasformazione e sulle operazioni temporali, divenendo pretesti per percorsi formali. La nostra memoria di quei temi garantisce di un’eventuale complessità nel loro trattamento nel tempo. Ma la musica sfida la vettorialità del tempo a più livelli. Vorrei riferirmi a un grafico, tratto da un mio breve saggio del 1985 , che esemplificava, in maniera volutamente schematica, alcuni percorsi all’interno di un flusso di processi compositivi. Nel grafico ogni movimento verso sinistra sull’asse x rappresenta un movimento a ritroso nel tempo. Sul piano della scrittura sono del tutto abituali i processi che, portando avanti lo sviluppo musicale, procedendo quindi fatalmente in avanti nel tempo, in realtà, ripetendo, rileggendo, retrogradando i materiali, di fatto tornano al tempo passato. O per lo meno alla memoria di questo tempo passato. Storicamente gran parte delle tecniche compositive si sono sviluppate proprio a partire da questa possibilità di procedere nei due sensi sull’asse temporale, fondandosi sull’artificio di una scomposizione del tempo in durata, operando quindi con una dimensione del tutto quantitativa del tempo.
Ma tornando al rapporto opera-tempo, quando l’ordine naturale si ristabilisce, per così dire, quando l’opera riacquista una sua dimensione temporale naturale, prendendo vita in una pubblica esecuzione ad esempio, allora percepiamo il tempo organizzato nell’opera. Percepiamo se le strategie messe in atto dall’autore nel tessere le sue trame abbiano prodotto senso, se la “finalità” perseguita (che Kant pone nel soggetto riflettente come condizione di possibilità oggettiva del giudizio di gusto) risulti manifesta. È, se mi consenti, l’epifania della forma che si rivela, è il momento della verifica, spietata perché incontrovertibile nel suo hic et nunc, di un’opera lungamente immaginata a “tempo sospeso” e “addomesticato”… e poi calata finalmente nel reale. È anche, infine, il momento del distacco e della nascita. E qui l’analisi non ci sorregge più perché, soprattutto, percepiamo la qualità del tempo.

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