Arethusa (2018)
per voce recitante, soprano e ensemble
su un testo tratto dalle Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone
Durata: 9:30 ca.
Dal libro V delle “Metamorfosi”, di Publio Ovidio Nasone
Prima esecuzione: L’Aquila, 28 Settembre 2018
Maria Cristina Di Nicola voce recitante, Antonella Cesari soprano
Ensemble del Conservatorio “A.Casella”
Marcello Bufalini direttore
«“Exigit alma Ceres, nata secura recepta, quae tibi causa fugae, cur sis, Arethusa, sacer fons. Conticuere undae, quarum dea sustulit alto fonte caput, viridesque manu siccata capillos, fluminis Elei veteres narravit amores. ‘Pars ego nympharum, quae sunt in Achaide’, dixit, ‘una fui, nec me studiosius altera saltus legit nec posuit studiosius altera casses. Sed quamvis formae numquam mihi fama petita est, quamvis fortis eram, formosae nomen habebam. Nec mea me facies nimium laudata iuvabat, quaque aliae gaudere solent, ego rustica dote corporis erubui crimenque placere putavi. Lassa revertebar, memini, Stymphalide silva; aestus erat, magnumque labor geminaverat aestum. Invenio sine vertice aquas, sine murmure euntes, perspicuas ad humum, per quas numerabilis alte calculus omnis erat, quas tu vix ire putares. […] quas dum ferioque trahoque mille modis labens excussaque bracchia iacto, nescio quod medio sensi sub gurgite murmur territaque insisto propioris margine ripae. — Quo properas, Arethusa? — suis Alpheos ab undis, — quo properas? — iterum rauco mihi dixerat ore. Sicut eram, fugio sine vestibus: altera vestes ripa meas habuit. Tanto magis instat et ardet, et, quia nuda fui, sum visa paratior illi. Sic ego currebam, sic me ferus ille premebat, ut fugere accipitrem penna trepidante columbae, ut solet accipiter trepidas urguere columbas. Usque sub Orchomenon Psophidaque Cyllenenque Maenaliosque sinus gelidumque Erymanthon et Elin currere sustinui, nec me velocior ille; […] Sol erat a tergo: vidi praecedere longam ante pedes umbram, nisi si timor illa videbat; sed certe sonitusque pedum terrebat, et ingens crinales vittas adflabat anhelitus oris. […] — armigerae, Dictynna, tuae, cui saepe dedisti ferre tuos arcus inclusaque tela pharetra—. Mota dea est, spissisque ferens e nubibus unam me super iniecit. Lustrat caligine tectam amnis et ignarus circum cava nubila quaerit bisque locum, quo me dea texerat, inscius ambit et bis — Io Arethusa, io Arethusa! — vocavit. […] Occupat obsessos sudor mihi frigidus artus, caeruleaeque cadunt toto de corpore guttae; quaque pedem movi, manat lacus, eque capillis ros cadit, et citius, quam nunc tibi facta renarro, in latices mutor. Sed enim cognoscit amatas amnis aquas positoque viri, quod sumpserat, ore, vertitur in proprias, et se mihi misceat, undas. Delia rupit humum, caecisque ego mersa cavernis advehor Ortygiam, quae me cognomine divae grata meae superas eduxit prima sub auras’».
«”L’alma Cerere, lieta per aver riavuto la figlia, ora ti chiede, Aretusa, qual è il motivo della tua fuga, e perché tu sia una fonte sacra. Tacciono le acque, e dai loro gorghi profondi Aretusa solleva il capo, e strizzatisi con la mano i verdi capelli, narra dell’antico amore del fiume Alfeo. “Io ero una delle Ninfe che stanno in Acaia, nessun’ altra con più passione di me percorreva le valli, nessun’altra con più passione di me tendeva le reti. Benché non avessi mai aspirato ad avere la fama d’essere bella, sebbene fossi rude, avevo fama d’essere bella. Ma non mi dava piacere la bellezza troppo lodata e, mentre le altre di solito ne godono, io scontrosamente arrossivo del mio corpo, e piacere mi sembrava un delitto. Ricordo, tornavo stanca dalla foresta di Stinfalo; c’era caldo, e il peso del caldo raddoppiava la fatica. “Capitai ad un fiume senza un vortice, che se ne andava senza un mormorio, trasparente fino al fondo, tanto che attraverso l’acqua si poteva contare ogni sasso, tanto che a stento avresti creduto che scorresse. […] Mentre battevo e traevo a me l’acqua guizzando in mille modi, levando e rituffando le braccia, sento venire non so che sussurro dal centro del gorgo, e impaurita risalgo sull’orlo della riva più vicina. – Dove corri, Aretusa? –, grida dall’onda Alfeo; quindi più roco – dove corri, Aretusa? –. Fuggo così com’ero, senza vesti, le mie vesti erano rimaste sull’altra sponda. Tanto più lui arde e m’incalza: nuda com’ero, gli sembravo già pronta. Così io correvo, così spietatamente lui m’inseguiva, come le colombe fuggono con ali tremanti davanti allo sparviero, e come lo sparviero si avventa contro le trepidanti colombe. Fino alle porte di Orcòmeno, fino a Psofide e al monte Cillene, ai dirupi del Mènalo e al gelido Erimanto e ad Èlide riuscii a correre, e lui non mi raggiungeva. […] Avevo il sole alle spalle: davanti ai piedi, vidi un’ombra allungarsi e precedermi, a meno che non fosse la mia paura a vederla, ma certo mi atterriva il rumore dei passi e sulla benda che mi teneva i capelli arriva il soffio potente del suo respiro affannoso. […] – Aiuta, Diana Dictinna, la tua scudiera, a cui spesso hai dato da portare il tuo arco e le frecce racchiuse nella faretra. – La dea si commosse, e staccata una nube da un denso banco di nubi, la gettò su di me. La foschia mi nasconde, mi cerca il fiume e guarda attorno alle nuvole cave; senza saperlo, gira due volte attorno al punto dove mi nasconde la dea, e due volte mi chiama, – Aretusa, Aretusa! – […] “Assediata, un sudore freddo mi pervade le membra, da tutto il corpo mi cadono gocce azzurrine; dove mi sposto, il luogo stilla, e dai capelli cade la rugiada e, in meno di quanto impieghi ora a raccontartelo, mi tramuto in acqua”. Ma allora il fiume riconosce nell’acqua l’amata, e deposto l’aspetto umano che aveva assunto, torna ad essere quello che è, una corrente, per mescolarsi a me nelle proprie acque. La dea di Delo fece uno squarcio nella terra, ed io sprofondando in buie caverne arrivo fino ad Ortigia, che mi è cara, portando il nome della dea. Questa mi spinse in alto, a respirare l’aria del mondo».