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CD “Oggetto d’amore”, presentation by Guido Barbieri

Jan , 1
CD “Oggetto d’amore”, presentation by Guido Barbieri

“DISEGNANDO CON IL DITO, SUL VETRO DI UNA FINESTRA”
Atto unico

Dramatis Personae

IL CRITICO (GB)
IL COMPOSITORE (MC)
L’INTERPRETE (SB)

GB. Forse non fa parte del “rito” dell’intervista, me ne rendo conto, ma vorrei rivolgervi una domanda che per una volta non riguarda voi, gli Intervistati, bensì me stesso, l’Intervistatore. E per favore, non rispondetemi: “Bella domanda, non vorrei rovinarla con una cattiva risposta”… La domanda secca è: “Che cosa sto facendo, io, esattamente, in questo preciso istante?”.
MC. Come sarebbe che cosa stai facendo, stai facendo una intervista a me, il Compositore e a Sonia, l’ Interprete, che ha per oggetto la mia Opera.
GB. Certo, si, hai ragione, ma intendevo dire una cosa un po’ diversa: quale è il gesto che sto compiendo, dal punto di vista “fisico”, capisci?
SB. Forse ho capito che cosa vuoi dire, anche se non vedo che cosa c’entri con noi e con l’Opera. Stai… parlando, giusto?
GB. Ecco, si, proprio questo volevo dire, sto parlando. Sto cercando di mettere una parola dopo l’altra, un suono dopo l’altro, per comporre una sequenza di vocali e di consonanti dotata in qualche modo di senso. Parlare vuole dire più o meno questo, no?
SB. Si, d’accordo, vogliamo andare avanti?

GB. Certo, hai ragione, arrivo subito al punto. Prima però devo riflettere un istante su “come” sto parlando. Non sto usando le vocali e le consonanti per chiedere un litro di latte oppure per dire al mio medico che soffro di mal di gola, no? Altrimenti parlerei, probabilmente, in un altro modo. Ti posso sottoporre ad un piccolo esperimento “fonetico”? Potresti dire, per favore, con la massima naturalezza possibile, la frase: “Potrei avere, per cortesia, un litro di latte”? Grazie.
MC. E va bene, se è proprio necessario: “Potrei avere, per cortesia, un litro di latte?”
GB. Ecco, senti? Se tu, che fai il compositore, cercassi di trascrivere questa frase che cosa ne verrebbe fuori?
MC. Beh, credo più o meno una serie di note tutte grosso modo alla stessa altezza. Tranne l’ultima, naturalmente, che sarebbe un po’ più alta.

GB. Perfetto. E questo tu non lo definiresti un “canto”, vero?
SB. Beh, sarebbe qualche cosa di simile a quello che si chiama un “recitativo”, no?
GB. Esatto. Se chiedi un litro di latte ti serve una specie di recitativo. Ma io, in questo momento, non ho bisogno di un litro di latte. Sto parlando con voi, ho un microfono in mano. Quindi io non sto parlando come quando entro dal lattaio o dal medico. Ecco, senti? Come verrebbero fuori, secondo te le frasi, che ho appena detto su un pezzo di carta da musica?
MC. Bah, non saprei, suppongo come tre o quattro serie di note, abbastanza lontane tra loro e separate da respiri piuttosto lunghi…
GB. Dunque, rispetto alla frase del latte, un po’ più vicine alla idea di canto che tutti noi abbiamo in testa.
SB: Se fosse musica del passato potremmo dire che sarebbe una specie di “arioso”, no, come quelli che si ascoltano nelle opere del Settecento.
GB. Brava, si sente che hai fatto il Conservatorio… Dunque, se quello che avete detto è vero, io in questo momento non sto esattamente “parlando”, non almeno rispetto alla nozione comune di “parlare” che probabilmente io e voi condividiamo. Non sto nemmeno cantando, certo, se lo facessi saremmo in un musical o in un’opera o in una operetta, Oppure mi prenderebbero per matto. Allora che cosa sto facendo?

SB. Secondo me stai solo girando intorno al discorso… Non è che possiamo restare qui tutta la sera…
GB. Giusto, giusto, ma non ti innervosire. Il fatto è che oggi noi crediamo di sapere distinguere abbastanza bene tra il cantare e il parlare. A nessuno verrebbe in mente di “cantare” un telegramma al telefono o di “parlare” una canzone davanti allo specchio, in bagno. In realtà, ogni volta che noi chiediamo alla nostra voce di aiutarci ad essere più persuasivi o più efficaci, ogni volta che ci rivolgiamo non a un tu, ma a un voi, tendiamo a trasformare la nostra parola in canto, il nostro parlare in cantare.
MC. D’accordo, ti crediamo, ma tutto questo che cosa c’entra con quello di cui dovremmo “parlare” o “cantare” o dire, cioè Oggetto d’amore?

GB. Già, ho sempre il vizio di prendere le cose un po’ alla larga, è vero. Io credo che un po’ c’entri, in realtà. E cerco di spiegarvi perché.
SB. Basta che tu non faccia troppo il critico…
GB. Potrei risponderti: “Io non sono che un critico…”, come dice Iago a Otello. Ma cercherò di non recitare la parte del critico, promesso. Il fatto è però che leggendo i testi di Pasquale Panella mi sono chiesto, quasi senza volerlo: “A quale razza appartengono queste parole? Sono prosa, poesia, racconto, canto?” Voi avete una idea, una ipotesi, un sospetto?
MC. Per me sono materiali, materiali di lavoro, non ha molto senso stabilire, dal mio punto di vista, a che genere letterario appartengano.
SB. Anche per me le parole di Panella sono oggetti, oggetti sonori, che possono diventare prosa o poesia o qualsiasi altra cosa: tutto dipende, secondo me, dal grado di intensità con il quale quegli oggetti vengono detti, diventano “materiale di scambio” con chi li ascolta.
GB. Insomma per tutti e due, mi sembra di capire, sono oggetti ambigui, indefinibili, liminari, come direbbe Carmelo Bene, nel senso che stanno su una soglia, per esempio quella che separa la stanza della prosa dalla stanza della poesia, indecisi da che parte andare.

MC. E forse è proprio la musica, non per tirare l’acqua al mio mulino, che li porta dentro una stanza o dentro l’altra o forse dentro tutte e due, contemporaneamente…
GB. Già, contemporaneamente. Forse è questa la “parola chiave”, come si dice. L’impressione che ho avuto io, leggendo ad alta voce, è che le parole di Panella siano liquide, mobili, instabili, ma di un liquido denso e pesante, come il mercurio…
SB. Si, è vero, vi ricordate quando da bambini si rompeva il termometro, quello per misurare la febbre, e il mercurio scivolava via da tutte le parti e dovevi fermarlo con le dita … prendeva la forma che volevi tu, a seconda di come mettevi insieme le gocce sparse sul tavolo!

GB. Esatto, e questa forma dipende dal suono che voi due, insieme, date a quelle parole. Voi preparate gli stampini, ci mettete dentro il suono, ancora caldo, poi aspettate che si raffreddi, che prenda esattamente la forma dello stampino, e alla fine servite in tavola…
MC. Beh, si, anche se ogni volta la forma è diversa, non usiamo sempre gli stessi stampini…
GB. O forse sono stampini irregolari che non danno mai la stessa forma alle parole liquide che uno ci mette dentro. Ma quello che mi ha davvero colpito nelle parole di Panella, stampini o no, è la loro instabilità. Il fatto che diano l’idea di essere allo stesso tempo prosa e poesia, racconto e diario, descrizione e confessione.
SB. Ma anche “oggettive” e “soggettive”, prima persona e terza persona, concretezza e irrealtà…
GB. Appunto, sono sempre in limine, sulla soglia. Quando ci siamo incontrati, l’anno scorso, su un palcoscenico un po’ diverso da questo, più intimo, più raccolto, mi avete fatto tornare in mente una definizione folgorante, indimenticabile, di “quella cosa” che si chiama poesia. Ce l’ha regalata Paul Celan che una volta ha detto: “La poesia è il canto di emergenza dei pensieri”. E’ il pensiero che urge, che spinge per venire fuori, che buca la parete del corpo e che diventa immediatamente “canto”, senza nemmeno passare per la parola.
MC. Beh, qualche cosa di simile è capitato anche a me, fatte le debite proporzioni, con le parole di Panella. Hanno tirato fuori il loro canto, il loro suono, senza che ci fosse bisogno di chiederglielo. Sembravano già “inclinate” verso l’intonazione, come dicevano gli antichi.
GB. L’intonazione è per l’appunto quella tecnica grazie alla quale, come facevano ad esempio i madrigalisti, la parola si trasforma in canto senza dimenticarsi però di essere parola. E questo mi fa venire in mente un’altra “definizione di poesia” che nel frattempo si è aggiunta alla mia collezione. Ho letto da qualche parte una intervista con Francesco De Gregori (lo si può mettere insieme a Celan, no?) in cui lui dice: “La poesia è quella cosa che sta a metà tra il parlare e il cantare”. Semplice, ma formidabile: lo avrebbe potuto dire anche Omero, tanto per fare un nome…
SB. Ma anche un poeta come che Paul Valery, per esempio. E’ stato proprio Carmelo Bene a farmelo scoprire. Mi ricordo un testo bellissimo che affronta il problema del “dire” la poesia. Valery sostiene che per scoprire il lato “carnale” della parola poetica, per coglierne tutta la sonorità, occorre prima trasformarla in canto e poi tornare alla parola. In questo modo si riesce a cogliere l’essenza della poesia che è e rimane, comunque, canto.

GB. E’ una definizione che sembra fatta apposta per descrivere Oggetto d’amore.
MC. Si, perché in tutti i quadri, o in quasi tutti, la voce di Sonia migra costantemente dal canto alla parola, senza mai essere davvero né una cosa, né l’altra, in un continuo scambio delle parti.
GB. Del resto Sonia non si limita mai alla semplice “intonazione” dei testi, ma diventa “complice” della parola, partecipa con grande intensità alla vita “fisica”, carnale, appunto delle parole che vengono trasformate dalla sua voce. Forse anche perché lei conosce davvero la musica, legge il testo in partitura, non si limita, come fanno quasi tutte le attrici, a “leggere” un testo strappato alla musica.
SB. Si, forse, ma è qualche cosa che faccio con naturalezza da un sacco di tempo, da quando non sapevo nemmeno io troppo bene che cosa fare da grande. Mi ricordo ancora il mio esame di ammissione alla Scuola di recitazione del Piccolo di Milano. Io venivo dal Conservatorio e non avevo nessuna preparazione di carattere “teatrale”. Quindi avevo “solfeggiato” il testo da recitare di fronte alla commissione, non l’avevo preparato come un testo da leggere. Giulia Lazzarini se ne accorse subito e mi disse: “Ma tu stai solfeggiando, non stai recitando”. Era molto incuriosita da questa “tecnica” che per me era però soltanto un modo molto spontaneo, naturale, di affrontare un testo.
GB. E’ evidente dunque che la tua voce contiene in sé quella aspirazione al canto che la parola poetica inevitabilmente custodisce. È anche a questo che hai pensato, Mauro, quando hai scelto Sonia come interprete di Oggetto d’amore?
MC. Beh, si, molte delle pagine del ciclo sono nate insieme a lei, sono state modellate intorno alla sua voce, alla sua inclinazione naturale per il canto.
GB. Allora se prendiamo per buona la definizione di De Gregori potremmo dire che la voce di Sonia non intona la poesia, ma è la poesia, ne è per lo meno la sua rappresentazione più profonda.
SB. Beh, che cosa posso dire aggiungere? Se dici la voce di Sonia “è” la poesia, mi metti in imbarazzo…
GB. No, guarda non è una valutazione di merito o un giudizio sul livello qualitativo del modo di “dire” la poesia. Non sarebbe il mio mestiere. È semplicemente una constatazione di carattere “tecnico”, oggettivo, nel senso che attraversare la soglia che divide le due famose stanze, quella del canto e quella della parola, sembra per te un movimento naturale, quasi istintivo…
SB. Va bene, la prendo allora come una osservazione “scientifica”, non estetica o critica…
GB. Esatto. Del resto, guarda, c’è un esempio, nel secondo quadro di Oggetto d’amore, che vale più di ogni altra “parola”. Alla fine di “Altrove con il tuo nome” il testo di Panella dice: “Ogni volta quel mio nome coincideva esattamente con me, che lo portavo altrove”. Mentre la prima parte della frase è “detta”, anche se l’intonazione sembra tendere un arco ampio, ricco di intervalli “cantabili”, la seconda parte, “che lo portavo altrove”, contiene una lacerto di canto mormorato, una brevissima melopea, appena sussurrata, che fa improvvisamente increspare la linea orizzontale della “recitazione”.
MC: Si, io in quel punto sentivo il bisogno, dopo dodici minuti di parlato, di una un inflessione “cantata”, ma non volevo che suonasse come un gesto forzato per cui non ho scritto assolutamente niente in partitura. Ho solo chiesto a Sonia di intonare quella frase nel modo più spontaneo possibile ed è nato un piccolo arabesco, una fioritura, l’innesto naturale di una melodia cantata in una melodia parlata.
GB. In questo caso una melodia di attrice, se possiamo dire così.
SB. Ecco, questo sembra già meno imbarazzante…
GB. Meno male. Del resto questo modo di intonare il testo, sospeso tra melodia parlata e melodia cantata, mi ricorda da vicino una tecnica antichissima, quella del madrigale italiano, dove l’alternanza tra omofonia e polifonia possiede lo stesso valore simbolico della distinzione tra la recitazione intonata e l’intonazione recitata. C’è qualche cosa di madrigalistico, Mauro, nel tuo modo di trasformare il testo di Panella in “rappresentazione”?
MC. Si, ma solo nel senso che il suono gioca continuamente con la parola, con i suoi significati semantici e con i suoi valori puramente fonetici: cerco insomma, come i madrigalisti, di mettere in relazione il senso con il suono. E magari, come gli antichi, mi dimentico della distinzione tra cantare e parlare…
GB. La parola “gioco” mi sembra un piccolo fondamento: c’è sempre la sensazione, infatti, ascoltando Oggetto d’amore, che la parola giochi continuamente con se stessa, che non voglia dire necessariamente ciò che il vocabolario le impone di dire, ma che invece cerchi di essere l’oggetto di se stessa, quasi non avesse bisogno di indicare o di descrivere, ma semplicemente di sentire, di sentirsi sentire…
SB. Beh, allora c’è nel testo di Panella un frammento che potrebbe essere l’illustrazione del lavoro che abbiamo fatto con Mauro, quasi il “manifesto poetico” di Oggetto d’amore…
GB. Allora, Sonia, facci un regalo: puoi recitarlo cantando o cantarlo recitando oppure a cantarlo cantando questo frammento?
SB. E se provassi solo a “dirlo”? Eccolo: “Parlare di chi si ama consiste in tua curiosa predilezione di se come attore, oratore, spettacolo della serata (accade quasi sempre di sera): più che dire perché qualcuno ascolti è un sentirsi sentire, sentirsi sentimentalmente, ma anche sonoramente”. Parlare del proprio oggetto d’amore significa non parlare a qualcuno, ma mettere sul palcoscenico quel particolare “me stesso” che parla d’amore. E da questo si sprigiona il teatro della voce che ha per protagonista l’oggetto d’amore. Esercitiamo il potere, abbiamo di fronte un assoggettato, un sottomesso, abbiamo di fronte l’ascoltatore”.
GB. Mentre “dicevi”, senza musica, le parole di Panella mi è tornata alla mente, non so davvero perché, una riflessione lucidissima e lancinante, quasi, di Nadine Gordimer. Lei ha detto una volta, in una intervista (vedete che qualche volta le interviste servono a qualche cosa?) che il compito dello scrittore è semplicemente quello di cogliere nelle vite degli altri “vapori di verità condensata”. E che scrivere significa quindi disegnare con la punta di un dito sul vetro di una finestra sulla quale si è posato un velo di nebbia. Non riesco a togliermi dalla testa l’impressione che Oggetto d’amore assomigli al vetro di questa finestra, un vetro sul quale si sono condensate, come vapore, le minuscole gocce di nebbia delle nostre vite “amorose”. Se questo è vero, allora le parole “scritte” di Pasquale Panella, le parole “dette” di Sonia Bergamasco e le parole “cantate” di Mauro Cardi hanno soltanto disegnato, con la punta delle loro dita, il profilo di quel “potere d’amore” che abbiamo sempre bisogno di “dire”, anche senza voce, a noi stessi. Grazie.
(Guido Barbieri)

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